Troppi giovani morti in guerra. Il caso di Pallante
Negli ultimi libri dell’Eneide le battaglie si succedono senza sosta. Virgilio non esalta tanto le capacità militari degli eroi, piuttosto sottolinea la sofferenza dei vinti e di chi vede morire sul campo di battaglia i propri cari. Dopo la morte di Eurialo e Niso, raccontata nel libro IX, ecco quella di Pallante, oggetto del X.
Nell’Olimpo Giove convoca tutti gli dei, adirato perché lui aveva proibito di muovere guerra contro i Troiani. Chiede loro perché abbiano contravvenuto il divieto. Il tempo della guerra sopraggiungerà quando i Cartaginesi violeranno le Alpi: soltanto allora le divinità avranno tempo di odiarsi e di manomettere gli eventi.
La madre di Enea, Venere, manifesta la propria riprovazione per l’atteggiamento arrogante dei Rutuli che assediano i Troiani, capeggiati da Turno che infierisce col favore delle armi. Non è giusto, insiste la divinità, che, se i Troiani hanno raggiunto l’Italia in accordo con responsi provenienti dal Cielo e dal regno dei morti, ora trovino ancora guerra e opposizione. «Enea sia pure sbattuto in balia d’acque incognite. Enea/ segua qualsiasi percorso la Fortuna voglia assegnargli». Almeno Ascanio, il piccolo nipote di Venere, possa però trovare la salvezza, senza dover affrontare l’orrore della guerra. Così, colei che è la dea della bellezza compare in questi versi dell’Eneide nel ruolo di nonna, ruolo insolito per colei cui venne donata la mela della discordia, che decretò chi fosse la più bella tra le tre divinità: Giunone, Minerva o Venere.
Giunone manifesta a sua volta la sua ira, lamentando che Enea e i Troiani sono approdati in Italia con atteggiamento ostile provocando le popolazioni indigene. Il padre Giove chiude il concilio degli dei con parole categoriche affermando che lui non farà differenza per nessuno: «a ognuno le proprie scelte porteranno pena o fortuna».
Frattanto, Enea torna in nave dall’Etruria con gli alleati etruschi e liguri. Il narratore stila un elenco dei grandi che lo sostengono. Ormai è sopraggiunta la notte e le ninfe si fanno incontro a Enea rivelandogli l’assedio che i Latini portano alle mura troiane e, nel contempo, l’avvicinamento di Arcadi e di Etruschi a cavallo. All’alba, la flotta di Enea giunge vicino alle mura ravvivando la forza degli assediati, mentre Turno rivolge le proprie armi verso i nuovi arrivati, distogliendole dalla città assediata. Enea riesce ad approdare e compie grande strage.
Negli ultimi libri dell’Eneide le battaglie si succedono senza sosta. Virgilio non esalta tanto le capacità militari degli eroi, piuttosto sottolinea la sofferenza dei vinti e di chi vede morire sul campo di battaglia i propri cari. La meditazione virgiliana diventa ancor più malinconica quando riguarda i tanti giovani che hanno trovato la morte nel pieno delle loro forze. Nel libro VI, Anchise aveva indicato ad Enea quel Marcello che avrebbe dovuto essere l’erede di Ottaviano Augusto, se non fosse morto prematuramente; nel IX trovano la morte i due giovani Eurialo e Niso, uniti in vita come in morte; ora nel X perirà Pallante, figlio del re arcade Evandro. Durante il combattimento, vedendo gli Arcadi fuggire, Pallante li incalza con aspre parole:
Dove fuggite, compagni? Per voi e le forti imprese,
per il nome del condottiero Evandro e le guerre vinte,
per la mia speranza, che ora subentra emula alla gloria paterna,
non confidate nei piedi. Bisogna rompere la via tra i nemici
col ferro. Dove preme quel drappello densissimo di uomini
là la nobile patria richiama voi e Pallante come guida.
Nessuna divinità incalza, noi mortali siam pressati da un nemico
mortale; noi abbiamo altrettante vite e mani.
Con eroismo Pallante sprona i suoi compagni a combattere con altrettanto coraggio. Il giovane arcade uccide molti nemici fino a quando Turno non lo sfida a duello con parole ingiuriose: «Mi piacerebbe che anche suo padre potesse essere presente allo spettacolo».
Turno salta giù dalla biga, si prepara ad andare a piedi
al duello; come un leone, quando da un’alta vedetta ha visto
lontano nelle piane un toro star fermo meditando agli scontri
vola, non diverso è l’aspetto di Turno che arriva.
Pallante per primo lancia il giavellotto che sfiora il grande corpo di Turno. È allora la volta dell’avversario che scaglia l’asta munita di ferro acuto contro Pallante. L’arma trapassa lo scudo, costituito da lamine di ferro, di bronzo e di pelle di toro. Passa anche i ripari della corazza e, infine, il petto del giovane.
[Pallante] afferra il caldo dardo invano dalla ferita:
per una stessa via sangue ed anima escono.
Il giovane prode «crolla sulla ferita […]/ e con la bocca che sanguina morde la terra nemica». Anche il giovane Pallante trova così la morte. Con il piede Turno calpesta il cadavere nemico, gli strappa il balteo istoriato (una cintura di cuoio cui si appendeva la spada). Trionfa superbo, non pensando che quella morte avrebbe causato ben presto anche la sua.
Come si pone Virgilio dinanzi alla sofferenza individuale? La filosofia stoica affermava che ogni avvenimento è inserito in una visione provvidenziale positiva e, per questo motivo, anche il dolore è giustificato in questa prospettiva universale soggetta ad un Logos. La filosofia epicurea non crede alla presenza degli dei nella vita quotidiana: il mondo è dominato dal caos e compito di ogni uomo è perseguire la propria felicità individuale. Virgilio non mutua da nessuna delle due correnti una giustificazione alla presenza del dolore nelle vicende umane. Certamente esiste un destino che vuole il dominio di Roma sugli altri popoli e l’approdo ad un’epoca di pace, quella di Ottaviano Augusto, che riporta la tranquillità e la concordia dopo i tanti anni di guerra civile.
Come potrà conservarsi la pace? Nella prospettiva virgiliana la strada è stata indicata nel libro VIII, nella scena in cui il re di Arcadia, Evandro, invita Enea a sostare nella sua reggia modesta e a disprezzare le ricchezze. La brama delle ricchezze porta gli uomini a scontrarsi tra loro: denaro e potere sono sovente lo sprone dei dissidi tra gli umani e tra i popoli. È la lupa dantesca che
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo impedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.