Tre verità sul 25 aprile strumentalizzato dalla sinistra
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Il senso autentico della Liberazione d'Italia viene tuttora occultato per colpire la destra. Il rifiuto di ogni totalitarismo escluderebbe anche le pretese “gnostiche” attualmente propugnate da certe élite progressiste occidentali.
Ogni volta che si approssima la ricorrenza del 25 aprile il senso autentico della Liberazione d'Italia che in quella data si celebra (si dovrebbe celebrare) viene occultato e volgarmente strumentalizzato da settori politici e intellettuali della sinistra italiana. Settori che per quasi ottant'anni se ne sono serviti per legittimare un partito, quello comunista, che era in realtà un corpo estraneo nelle democrazie liberali occidentali, sostenendo l'immaginaria identificazione tra antifascismo e democrazia, e parallelamente per delegittimare gli avversari di quel partito cercando di accusarli di non essere abbastanza antifascisti.
Una pantomima grottesca che continua ad andare in scena ancora oggi, quando quel partito da decenni non esiste più e teoricamente tutte le forze politiche italiane dovrebbero concordare su una concezione del pluralismo che escluda ogni dittatura. Perché a partire dall'inizio della “seconda Repubblica” è servita agli eredi di quella storia, che mai ne hanno preso le distanze inequivocabilmente, per colpire invece e cercare di affondare il nuovo centrodestra fondato da Silvio Berlusconi con l'apporto di Gianfranco Fini, che, qualsiasi cosa se ne pensi, tra il 1993 e il 1995 con le sue radici neofasciste aveva fatto seriamente i conti, superandole. E, successivamente, la nuova destra di Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia, tanto più ora che grazie al consenso elettorale essa è approdata al governo del paese.
A maggior ragione quest'anno, dunque, la mistificazione di un'interpretazione della Liberazione del 1945 come passaggio storico che segnerebbe la legittimazione liberaldemocratica solo della sinistra, escludendone in saecula saeculorum la destra, e bocciando qualsiasi cosa essa dica o faccia come irrimediabilmente “sporcata” da una sorta di “fascismo eterno”, verrà ancora sommariamente adoperata quale corpo politicamente contundente, nella speranza di dividere e/o isolare gli avversari, e simmetricamente di cementare lo “zoccolo duro” del consenso di uno schieramento progressista sempre più sfilacciato, contraddittorio al proprio interno e privo di un'identità comune.
Per cercare almeno di limitare che l'inganno dilaghi ulteriormente è dunque necessario ribadire per l'ennesima volta verità storiche ovvie contro la speculazione ideologica.
La prima verità, costantemente ignorata dalle celebrazioni unilaterali e strumentali, è che nella liberazione dell'Italia dall'occupazione tedesca e dalla Repubblica di Salò mussoliniana il ruolo determinante non venne svolto dalla Resistenza italiana, ma dalle truppe angloamericane sbarcate a partire dall'estate del 1943. In particolare, fu soltanto lo sfondamento definitivo della “Linea Gotica” avvenuto con l'offensiva di primavera lanciata dal tenente generale Clark a consentire il 25 aprile l'insurrezione generale lanciata dalle formazioni partigiane, quando fin dal 14 di quel mese i tedeschi erano in precipitosa ritirata. Il contributo dei partigiani, in un anno e mezzo di guerra sul territorio del Centro-Nord, fu sotto alcuni aspetti significativo, simbolicamente importante ed enfatizzato dall'intera classe politica italiana da allora in poi per veicolare l'idea di un paese che si era liberato con le proprie forze e riscattato dalla dittatura, ma rimase sempre secondario rispetto all'asse centrale della guerra. La sostanza della Liberazione come conquista delle Forze alleate fu determinante per la storia successiva d'Italia, perché allontanò le mire egemoniche di Stalin e fece sì che nel paese venisse impiantato un modello politico-istituzionale complessivamente in sintonia con i regimi rappresentativi euro-occidentali.
La seconda verità – eterno “segreto di Pulcinella” per tanti che rifiutano ancora di vederla – è che la Resistenza italiana non fu un fenomeno unitario, ma un'aggregazione tra varie componenti provvisoriamente unite dal nemico comune, rimaste però sempre divise sotto molti aspetti essenziali. In particolare, sussisteva una differenza sostanziale di approccio tra le formazioni partigiane che facevano più direttamente capo a strutture partitiche e aderivano a piattaforme ideologiche (comuniste, socialiste e in parte azioniste) e quelle che si formarono per un movente esclusivamente patriottico, etico, religioso (la Resistenza militare, quella cattolica, quella monarchica e liberale). Le prime intendevano la guerra partigiana come premessa e primo atto di una rivoluzione politica, e gran parte dei suoi aderenti guardava come modello di società alla dittatura comunista sovietica. Il confronto tra i due poli della Resistenza, al di là dell'inevitabile coordinamento funzionale allo sforzo bellico, fu netto e irriducibile, e sfociò in episodi tragici, come quello dell'eccidio di Porzûs nel febbraio 1945. Fu soltanto grazie alla presenza sul territorio e all'indiscussa preponderanza dell'armata angloamericana - e poi grazie al rifiuto della maggioranza della società civile italiana di adeguarsi a quel modello, espressa nelle elezioni del 1946 e del 1948 - che i partigiani socialcomunisti non riuscirono a realizzare il loro obiettivo, che non era certo la democrazia nel senso liberale e occidentale del termine.
La terza verità deriva direttamente dalle prime due. La democrazia pluralista rinata in Italia a partire dal 1944, e sancita poi dalla Costituzione repubblicana del 1948, pur essendo inevitabilmente condizionata nella sua genesi e nella sua vita dalla presenza della più forte sinistra comunista nel mondo occidentale, grazie agli angloamericani e alla Resistenza militare, patriottica, cattolica, monarchica, liberale poté prendere forma nel solco del costituzionalismo liberaldemocratico. L'antifascismo, dunque, pur essendone necessariamente alla base in quanto il regime mussoliniano era stato la negazione della democrazia liberale, non ne esaurisce assolutamente i fondamenti ideali, che, più ampiamente, sono quelli giusnaturalistici, in cui convergevano la cultura liberale, quella del personalismo cristiano e quella del socialismo riformista.
Non a caso la Carta repubblicana non nomina mai l'antifascismo come base dell'ordinamento italiano – con buona pace degli scalmanati polemisti che vorrebbero identificarlo in essa come assioma supremo – se non nella Disposizione transitoria che vieta la ricostituzione del partito che aveva instaurato il precedente regime, mentre pone chiaramente come suoi principi fondamentali la sovranità popolare, temperata dalla limitazione e divisione del potere, i “diritti inviolabili dell'uomo”, l'uguaglianza davanti alla legge e le libertà civili sedimentate in secoli di tradizione costituzionale.
Al di là della mistificazione della sinistra di ieri e di oggi, insomma, il senso politico del 25 aprile non può essere altro che quello del rifiuto di ogni regime autoritario e totalitario, senza indebite assolutizzazioni dell'uno o dell'altro, e dunque la fondazione della libertà sulla resistenza sia al fascismo e al nazismo che alle minacce illiberali del comunismo. E, aggiungeremmo, oggi questa celebrazione andrebbe intesa anche come una ferma opposizione ad ogni nuova ideologia dalla pretesa “gnostica” di costruire con le buone o con le cattive l'umanità nuova, il paradiso in terra, come quelle che vediamo attualmente propugnate da certe élite progressiste occidentali.