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IDEOLOGIA LGBT

"Transhood": il documentario che mostra l'abuso di bambini

Sembra un incubo, invece è la realtà: oggi si possono spingere i figli, anche di 3 o 4 anni, a pensare di far parte del sesso opposto a quello biologico, avallando, anziché diradare, la confusione derivante da situazioni problematiche. A raccontarlo è il documentario che segue la vita di cinque minori dai 4 ai 15 anni: una propaganda arcobaleno che, guardata attentamente, mostra però il plagio degli innocenti, tanto da registrare anche il pentimento di una mamma.

Attualità 30_11_2020 English Español

Sembra un incubo, invece è la realtà a cui siamo arrivati dopo 70 anni di predicazione contro l’esistenza di una legge naturale, di una verità a cui obbedire, e contro i limiti necessari a uno sviluppo sano della persona: oggi i genitori possono spingere i figli, anche di 3 o 4 anni, a pensare di far parte del sesso opposto a quello biologico, apparendo al mondo comprensivi, buoni e ingiustamente discriminati da chi pensa che si tratti di un abuso.

A descrivere cosa sta avvenendo è un documentario intitolato Transhood uscito il 12 novembre che ha seguito per cinque anni quattro bambini cosiddetti “trans” (termine amato da chi vuole incasellarli) e che descrive l’impossibile: il primo è "Leena" di 15 anni, poi c'è "Jay" di 13, Avery di 7 e Phoenix di 4 anni, che alla fine del documentario avranno appunto cinque anni in più. Tutti provengono da Kansas City, dove “una gamma completa di trattamenti terapeutici, psicologici, psichiatrici, medici, chirurgici, endocrini ed estetici” vengono elargiti presso il Transgender Institute. Così questi minori crescono pensando di essere l’opposto di ciò che sono grazie ad “esperti” e genitori che li spingono a bombarsi di ormoni, a vestirsi in un certo modo e a pretendere che la scuola, gli amici, i parenti e il mondo neghino la realtà del loro sesso.

Chiunque sa che un bambino pur di essere accettato e voluto dal genitore è disposto a tutto, anche a farsi confermare in comportamenti che rilevano un disagio. E’ perciò gravissimo pensare che l’abuso non solo avvenga alla luce del sole ma che sia scambiato per amore. Come cerca di spiegare nel documentario la mamma di “Jay” (la quale si finge un maschio tagliandosi i capelli e vestendosi da uomo), che si fa compiangere perché: “La mia famiglia non parla più con me. Mia mamma pensa che sia una abusatrice di bambini”. Anche se "Jay" non ama la parola “trans” e non vuole definirsi tale sua madre continua: "Lo spingerò a uscire allo scoperto e ad essere chi dovrebbe essere".

Ma come è possibile che una madre spinga tanto l’acceleratore invece che cercare di capire? Lo si comprende scoprendo che la donna vive con una compagna con cui ha cresciuto la figlia e che insiste fino ad iniettare il testosterone nel corpo dell'adolescente che piange gridando che “Oh mio Dio brucia”. Le due donne le dicono che si abituerà, così dopo anni di ormoni andrà al college completamente trasformata. Impressiona la scena in cui la ragazzina apre una busta in cui ha ricevuto i documenti che la riconoscono come un maschio, mentre la compagna della madre grida euforica afferrando il braccio di “Jay” che la respinge e le dice per nulla entusiasta: “Smettila di urlare!”.

Il quindicenne "Leena" sostiene invece di aver deciso di essere una ragazza all'età di 7 anni dopo il divorzio dei genitori, che hanno confermato la sua confusione senza interrogarsi sul fatto che magari anche loro c’entravano con quel disagio. L’aspetto del ragazzo è femminile, la voce è maschile, ma alla fine del documentario subisce un intervento di castrazione.

Penosa è anche la storia di Avey (oggi 12enne) che ammette: “Ho cominciato (le riprese del documentario) senza sapere davvero chi fossi, perché ero un bambino, oggi ho 12 anni”. Questa frase è significativa se si pensa che sua madre, Debi, ha sempre raccontato che a 4 anni Avey gli disse che si sentiva una bambina. E’ bastato questo per convincere la famiglia che bisognava assecondare la confusione del piccolo, che però ammette di non sapere veramente chi fosse prima degli 8 anni passati ad essere tratto come una femmina. Non solo, Avey è il bambino che apparve nel 2016 sulla copertina del National Geographic. Nel documentario si scopre che il piccolo non voleva essere usato in quel modo, tanto che all’arrivo del fotografo grida alla madre: "Mi metti dentro tutte queste cose e io non lo approvo!", poi corre a nascondersi nella sua stanza. Alla fine Debi lo fa uscire e lui si fa riprendere. Secondo la donna, il suo bambino avrebbe detto che "il suo lavoro come persona trans era di aiutare a cambiare il mondo per gli altri bambini". Peccato che un genitore a questa età dovrebbe preoccuparsi di proteggere il gioco e l’infanzia di un figlio e non di farlo “lavorare” come un adulto per zittire le coscienze di adulti che preferiscono non farsi domande. Oggi Debi continua il suo attivismo ma il figlio non vuole più apparire quanto prima.

Il peggio arriva però alla fine, quando la donna porta Avery dal dottore spiegandogli di aver letto al bimbo di 8 anni "tutti i libri di educazione sessuale" capendo così che lui ha paura della pubertà. "Voglio solo restare un bambino", dice Avery. Ovviamente la madre lega il disagio al fatto che il piccolo temerebbe lo sviluppo del suo sesso biologico. Eppure, basta un briciolo di buon senso per capire che un bimbo dopo aver passato ore a leggere libri di educazione sessuale non può che rimanerne quantomeno inquietato.

E’ così che un documentario che attesta i danni provocati da genitori emotivamente violenti, da famiglie rotte o da disfunzioni coniugali, si fa propaganda del nuovo mondo che si vuole, dove non ci saranno più discriminazioni e ingiustizie.

Ma c’è un ma, che non è possibile non notare ed è riassunto nell’ultima storia raccontata, quella di Phoenix che a 3 anni cominciò a vestirsi da femmina spiegando: “Gioco a fare la bambina”, motivo per cui la madre, Molly, incoraggiavano a definirsi femmina. Ad un certo punto il piccolo viene portato in una chiesa protestante dove viene accolto come una bambina insieme a tutti i fedeli che celebrano l’orgoglio gay perché “noi ti amiamo così come sei”. Quando però il piccolo deve dire al pubblico che “sono una ragazza” ci ripensa e tace. A quel punto la madre spiega che “è timida, ma vuole dirvi che è una bambina”.

Peccato però che qualche anno dopo una voce chiede a Phoenix se si identifica come una femmina e lui risponde che “no, sono un maschio”. A quel punto la voce gli comunica, “ok allora ti chiameremo bambina più avanti se vuoi”. Ma il piccolo risponde ancora di no.

Come mai? Alla fine del documentario le cose sono cambiate, persino la posizione della madre che spiega quanto allora fosse in difficoltà con il marito assente, motivo per cui alla fine ha divorziato andando a vivere con i suoi genitori. E’ a quel punto che Phoenix, trovando una figura di riferimento maschile, è cambiato: ha cominciato a giocare con molto il nonno e quindi i maschi dell’asilo, rifiutando per sempre l’identità femminile.

Perciò Molly ammette: “Non posso credere che sia successo. È stato un enorme errore (confermarlo nella sua confusione, ndr). I bambini non sono transgender. È un maschio. È nato maschio. È sempre stato un maschio. Sarà sempre un maschio. E forse ci sono persone che lo sono realmente [transgender] ma è probabilmente un disturbo mentale".

Ma se finora i trattamenti ormonali non potevano essere somministrati senza il consenso dei genitori, con Biden l’incubo è destinato ad avanzare: quando lo scorso 15 ottobre Mieke Haeck, che definisce suo figlio femmina, ha chiesto al candidato democratico come si sarebbe comportato dopo che Trump aveva "attaccato i diritti delle persone transgender". Biden ha chiarito: "Cambierò completamente la legge...L'idea che un bambino di 8 anni o un bambino di 10 anni decida, sai, 'voglio essere transgender. Questo è quello che ho deciso che mi sarebbe piaciuto essere. Mi renderebbe la vita molto più facile’. Non dovrebbe esserci discriminazione per questo”.

Inoltre, il democratico ha promesso di approvare l'Equality Act nei primi 100 giorni alla Casa Bianca, il che aggiungerebbe l’'"identità di genere" di una persona all'elenco delle classi protette dal titolo IX del Civil Rights Act del 1964 e potrebbe annullare la decisione di un genitore di vietare al figlio di chiedere gli ormoni. Non importa se i fatti hanno già smentito la follia con la clinica Tavistock di Londra denunciata da decine di ragazzini a cui fu bloccata la pubertà fin da bambini per cui è stata accusata di superficialità dalla recente sentenza dell'Alta Corte inglese, che ne ha arginato l'operato mettendo in serio dubbio la leicità dei processi affermativi della disforia di genere, soprattuo nel caso di minori.