Traffico di feti abortiti, lo strambo fact-checking di Open
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Open, d’intesa con Meta, taccia di "contesto mancante" il recente articolo della Bussola sui video che mostrano il traffico di parti di bambini abortiti: video insabbiati anche da Kamala Harris. Un fact-checking tendenzioso, che non riesce a smentire nulla di quanto abbiamo scritto.
Il giornale online Open collabora a un progetto di Meta, la società che include Facebook e Instagram, con il fine dichiarato di «combattere le notizie false e la disinformazione». Per farlo si avvale di quelli che vengono chiamati fact-checker (o debunker), che di solito, ma non sempre, sono giornalisti, chiamati a fare quello che qualunque giornalista dovrebbe fare: la verifica dei fatti. Solo che il termine fact-checker si lega più specificamente all’idea di fare le pulci a quanto dichiarato o scritto da politici o anche da colleghi giornalisti, per smontare le cosiddette fake news. Che poi magari sono notizie vere, ma scomode.
Un articolo a firma del sottoscritto – pubblicato sulla Nuova Bussola lo scorso 13 agosto e intitolato Traffico di feti abortiti, online i video insabbiati da Kamala Harris – è stato oggetto di un fact-checking da parte di David Puente, giornalista di Open.
In sintesi, ricordiamo che il nostro articolo riguardava la pubblicazione ufficiale, avvenuta il 30 luglio di quest’anno, di cinque video girati di nascosto (tra il 2014 e il 2015) da attivisti pro vita del Center for Medical Progress (Cmp) e che mostrano – lo ribadiamo – il coinvolgimento di alcuni dirigenti di Planned Parenthood in attività di raccolta e commercio di tessuti e organi di bambini abortiti, con tanto di accordo sul prezzo. Si tratta di cinque video citati in giudizio durante un’udienza tenuta dal Congresso degli Stati Uniti lo scorso 19 marzo, video la cui diffusione è stata bloccata per 8-9 anni – insieme ad altri filmati compromettenti – con la complicità, tra gli altri, dell’ufficio dell’allora procuratrice generale della California, Kamala Harris, e di una parte del sistema giudiziario statunitense: giudici, cioè, che si sono occupati della causa sia a livello civile che penale. Nell’articolo si sottolineava quindi che questi video fossero, finalmente, online già da due settimane, ma senza che i media liberal ne parlassero.
Ecco il titolo dell’articolo di Open: La vecchia notizia fuorviante sui video «insabbiati da Kamala Harris» su un presunto «traffico di feti abortiti» (16 agosto 2024). A corredare l’articolo di Puente una foto con la nostra titolazione, segnata da un marchio di discredito: «Contesto mancante». In altri casi di fact-checking, Open ha optato per un marchio più grave, cioè «falso», perciò potremmo quasi dirci graziati… scherzi a parte, il bollino di «contesto mancante» rivela già l’arbitrarietà assoluta di questo tipo di giudizi, che si potrebbero dare indifferentemente a qualunque articolo, solo perché manca – ad esempio – dell’indicazione di qualche luogo, data o personaggio.
Ma andiamo ai contenuti del fact-checking, anticipando la nostra risposta: il lungo articolo di Puente non contiene di fatto nessuna smentita del nostro, come chiunque può verificare sulla base dei documenti, i rapporti, le decisioni processuali, i video pubblicati dal Cmp, tutte notizie a cui la Bussola ha dedicato vari articoli fin dall’inizio della vicenda, nel 2015.
Nel suo fact-checking, Puente mischia informazioni che servono più che altro a dimostrare una sua tesi preconfezionata (La vecchia notizia fuorviante), che però fallisce il bersaglio di quanto da noi sottolineato. Ad esempio, il giornalista di Open si sforza di dimostrare che i cinque suddetti video fossero già da tempo conosciuti dal Congresso, come mostra quantomeno l’estratto di una conversazione presente nel rapporto di 471 pagine del 30 dicembre 2016 (rapporto di cui avevamo già scritto a suo tempo). Ma da nessuna parte del nostro articolo si sostiene che i cinque video fossero nuovi al Congresso, bensì, più semplicemente, che quei cinque video sono oggi liberamente accessibili a tutti coloro che hanno una connessione Internet. La notizia, come da nostro titolo, è che sono (finalmente) online.
Leggiamo e commentiamo, in ordine, i punti principali del fact-checking che Puente sottolinea nel suo schema “Per chi ha fretta”.
Scrive Puente: «I repubblicani del Congresso americano, durante la presidenza Trump, non riscontrarono alcuna prova a sostegno delle accuse contro Planned Parenthood, nonostante avessero a disposizione le stesse riprese diffuse nel 2024. Il Congresso impiegò 15 mesi e 1,59 milioni di dollari per condurre l’indagine riguardo a Planned Parenthood, pubblicando un report finale il 30 dicembre 2016. Al fine di analizzare i video, il Congresso americano ottenne le registrazioni integrali del Center for Medical Progress (CMP)».
Rispondiamo: intanto, piccolo dettaglio, sia l’inchiesta del Congresso che la pubblicazione del rapporto del Select Investigative Panel on Infant Lives (questo il nome della commissione parlamentare che indagò sul caso) avvennero prima che Trump si insediasse alla presidenza (20 gennaio 2017). Inoltre, ed è il dettaglio principale, il rapporto del Congresso formulò in realtà diverse accuse nei confronti di Planned Parenthood, nonché di università, aziende biotecnologiche, laboratori variamente coinvolti nella compravendita di parti di bambini abortiti: «Il Select Investigative Panel ha effettuato numerosi deferimenti penali e normativi [seguiva un elenco di 15 deferimenti] e sono in corso indagini in tutto il Paese». Ma il potere del panel del Congresso si fermava qui, poiché è il sistema giudiziario a dover portare avanti e provare le accuse. Ciò evidentemente non è semplice, in un contesto in cui Planned Parenthood è riuscita a bloccare dei video per 9 anni, passare per vittima e mettere gli autori dei video sul banco degli imputati. Ad ogni modo, il panel del Congresso individuò quattro diversi modelli di business riguardanti la compravendita di tessuti e organi di bambini abortiti. E la presidente Marsha Blackburn, insieme agli altri membri repubblicani del panel, chiedeva che Planned Parenthood non venisse più finanziata con soldi pubblici.
Riprendiamo la sintesi di Puente: «I video forniti dal CMP erano stati modificati o manipolati con un chiaro intento ingannevole, omettendo dichiarazioni che avrebbero scagionato l’organizzazione». Il giornalista di Open, nel corpo dell’articolo, aggiunge che «le manipolazioni includevano l’omissione di dichiarazioni in cui una dirigente di Planned Parenthood affermava chiaramente che l’organizzazione non traeva profitto dai tessuti fetali».
Rispondiamo: se quella dirigente avesse affermato il contrario, avrebbe ammesso una colpa… Ad ogni modo, anche se le dichiarazioni di quella tale dirigente fossero state sincere, ciò non elimina le dichiarazioni di segno opposto – attestate dai filmati e da email – fatte da diverse altre dirigenti di Planned Parenthood. Nel nostro articolo del 13 agosto citavamo i nomi di due di loro, Ann Schutt-Aine e Tram Nguyen, che rassicuravano i loro presunti nuovi clienti sul fatto che nell’enorme clinica di Houston ottenevano, solitamente, feti abortiti piuttosto intatti e quindi organi – come polmoni, reni, etc. – altrettanto intatti. E la stessa Schutt-Aine si rendeva poi protagonista di uno scambio di email con una sua superiora, per finalizzare la proposta di contratto segreto ricevuta dal cliente che poi – a scandalo scoppiato – si era rivelato essere un reporter del Cmp. Dunque, parlare di video «modificati e manipolati» è un pretesto, perché un conto è un montaggio che “spezzetta” completamente la realtà, fino a deformarla; e un altro è un montaggio che ti mostra, per diversi minuti di seguito, i dialoghi più significativi. Chi vuole, veda i video da noi descritti e si faccia un’idea.
Sempre Puente scrive: «Gli attivisti del CMP vennero incriminati nel 2017 per 15 reati dal procuratore generale della California, Xavier Becerra, non da Kamala Harris».
Rispondiamo: vero, ma che c’entra con il fact-checking del nostro articolo del 13 agosto 2024? Sul ruolo di Becerra questo quotidiano ha già scritto più volte. Ma nell’articolo del 13 agosto si ricordava semplicemente non che l’allora procuratrice generale della California, Kamala Harris, avesse incriminato gli attivisti del Cmp, bensì che il suo ufficio – era il marzo 2016 – avesse condotto, dopo un incontro con dirigenti di spicco di Planned Parenthood, un raid a casa di David Daleiden per sequestrare tutto il materiale riguardante i video sotto copertura. Per il resto, avevamo già detto che la Harris non era stata certo l’unica a favorire il colosso degli aborti, ma ad oggi è senz’altro il personaggio più in vista, e dovrebbe essere normale che un giornale cerchi di far emergere certe sue zone d’ombra.
Ultimo punto trattato dal giornalista di Open: «Nel 2019, una giuria civile federale di San Francisco aveva stabilito che Planned Parenthood dovesse ricevere un risarcimento di oltre 2 milioni di dollari».
Rispondiamo: vero, ma Puente non dice che a presiedere il caso alla Corte distrettuale di San Francisco era William Orrick III, con un pesante conflitto di interessi (ossia la presenza di una struttura di Planned Parenthood all’interno del Good Samaritan Family Resource Center, da lui fondato), che aveva spinto la difesa di Sandra Merritt, attivista del Cmp, a chiedere la ricusazione del giudice: richiesta respinta dallo stesso Orrick. Come ricostruisce Life News: «Il giudice Orrick limitò severamente le prove e, alla fine, diede istruzioni alla giuria su come avrebbe dovuto pronunciarsi su questioni critiche. La giuria decise a favore del gigante dell'aborto per ogni capo d'accusa, compreso il RICO [una legge pensata per contrastare le organizzazioni criminali, mafia inclusa, ndr], e assegnò più di 2 milioni di dollari di danni. La corte ha poi assegnato a Planned Parenthood quasi 14 milioni di dollari in spese legali e costi, per una sentenza totale di oltre 16 milioni di dollari. La Corte d'Appello del Nono Circuito [ritenuta tra le più liberal in assoluto, ndr] ha confermato la decisione e la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rifiutato di riesaminare il caso senza commentare».
In conclusione, Planned Parenthood è riuscita fin qui a ribaltare lo scandalo a suo favore, facendo incriminare gli autori di un’inchiesta giornalistica, da cui emergono le sue malefatte o, meglio, orrori (fin qui non riconosciuti come reati dal sistema giudiziario, ma questo è un altro paio di maniche): ed è esattamente quello che abbiamo scritto e che il “fact-checking” di Puente, gira e rigira, non riesce a smentire, rivelandosi un autogol. Un autogol che da un lato getta discredito su un articolo veritiero, il nostro, ma dall’altro – per chi vuol vedere – mostra come agiscono certi odierni “guardiani dell’informazione”.
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