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LA RIMPATRIATA DA "GIANNI"

Tortelli, pugni chiusi e demoni: gli ex Br imprigionati

Si definiscono sconfitti e si ritrovano ogni anno nella trattoria dove tutto ha avuto inizio: per cantare l'Internazionale, vinti, ma senza moti di pietà, per non guardare in faccia i demoni. Il ritrovo degli ex brigatisti. Fenomenologia di una solitudine senza redenzione. Di una complicità che non si è mai fatta amicizia. 

Cronaca 06_09_2016
Il docufilm Il Sol dell'Avvenire

“Lì siamo nati e lì moriamo”, dice Loris Tonino Paroli commentando con la Nuova BQ la rimpatriata di ex brigatisti che come ogni anno da circa 5 si sono dati appuntamento dove tutto nacque. Appennino Reggiano, sulle prime colline si lascia per un attimo la statale 63 e si arriva a Costaferrata nel piccolo comune di Casina. E’ qui, nella trattoria da Gianni, che nel 1971 un gruppo di giovani fuoriusciti dalla Fgci (Federazione Giovani Comunisti Italiani) gettò le basi per la nascita delle Brigate Rosse. E’ tra questi tavoli che Renato Curcio e Mara Cagol e molti altri come Alberto Franceschini e Prospero Gallinari si ritrovarono per disegnare la prima stella a cinque punte e dare l’assalto a quella che è poi diventata la stagione più buia della storia repubblicana.

La notizia della rimpatriata di quegli ex brigatisti, molti dei quali neanche dissociati, ha destato preoccupazione e indignazione. Ne hanno parlato i grandi giornali, temendo che la reunion potesse in un qualche modo costituire un problema di sicurezza nazionale. Ma scandalizza i tanti che durante gli anni di piombo hanno rischiato la vita per difendere le istituzioni democratiche. Per la verità la rimpatriata, allegra non si sa quanto, degli ex terroristi va avanti da tempo, solo che questa volta è stata lanciata sui giornali, galeotto un articolo sul Messaggero di Roma che l’annunciava. E ieri sono andati altri che hanno raccontato con dovizia di particolari l’elenco delle presenze. Va avanti da quando nel 2007 proprio a Costaferrata si ritrovarono per un docufilm su quegli anni, su quella stagione di terrore e resistenze tradite. Attorno al tavolo alcuni di loro, ma anche chi, in quella spirale del terrore scelse di non cadere.

Ma ciò che poteva avere un senso nel 2007, oggi acquista una dimensione privata e quasi sacrale. Il ritrovarsi puntuale, come se si trattasse di una cena di classe, dei reduci di quella stagione aiuta a conservare il ricordo su un qualche cosa che tutti hanno condiviso come importante. Così importante da essere marchiato negli anni con la galera e le vite spezzate che hanno lasciato come scia.

Attovagliato c’è Loris Tonino Paroli, reggiano, che non ha mai ucciso nessuno, ma si è fatto 16 anni di galera per alcune rapine e per aver partecipato alla liberazione di Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato; e c’è Roberto Ognibene, 62 anni, il più giovane dei brigatisti reggiani, catturato dopo aver ucciso in una sparatoria il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano, la sua attuale compagna, Nadia Mantovani, 66 anni, che fu la compagna di Renato Curcio dopo la morte di Mara Cagol, entrambi dissociati. C’è Lauro Azzolini, 73 anni, membro del Comitato Esecutivo durante il sequestro Moro e gambizzatore di Indro Montanelli. E poi c’erano Antonio Savino, 67 anni, della colonna Walter Alasia di Milano, arrestato dagli uomini di Dalla Chiesa e Raffaele Fiore, 62 anni, che diresse la colonna di Torino e partecipò all’agguato di via Fani uccidendo gli uomini della scorta ed estrasse Moro dall’auto. E poi Piero Bertolazzi che partecipò al sequestro del giudice Sossi. E molti altri. Alcuni di loro hanno già scontato pene che vanno dai 14 ai 20 anni, ma altri sono stati condannati all’ergastolo e godono ora della libertà condizionale.

Ed è forse questo l’aspetto che più indigna: il sapere che se sei condannato all’ergastolo e benefici della libertà condizionale trascorri il tuo tempo libero andando a reincontrare chi con te ha condiviso quella tragedia per la quale dovresti essere in carcere. Ma non solo questi. Alla reunion c’erano anche alcuni giovani di una cooperativa sociale di Bologna, giovani che non hanno vissuto quella stagione di morte, ma che vedono comunque in questi “reduci” una sorta di fratelli maggiori. “Alla fine – ha confessato l’avvocato Vainer Burani, che non scelse la lotta armata ma di molti ex brigatisti è stato legale -, si è finito col pugno chiuso a cantare l’Internazionale”.

Non c’è alcuna volontà di rifondazione delle Brigate Rosse, nessuno è così ingenuo da temere che una "tortellata" del genere possa costituire un problema. Ma c’è semmai una consapevolezza di far parte di una storia che in un modo o nell’altro li rende ancora prigionieri. A parte la dissociazione che è una tecnica prettamente giuridica per ottenere sconti di pena, non c’è nessun moto di pentimento. Ci si ritrova così, sapendo di avere in comune una storia che fa ancora sanguinare il Paese. “Siamo morti – insiste ancora Paroli -. Capito? Morti! Io passo le mie giornate dall’orto all’arte - alludendo alla passione cresciuta in carcere per la pittura -. Semplicemente ci ritroviamo perché non ci vediamo mai: c’è chi è in carcere, chi è già morto, chi non si vede da tanti anni. Parliamo di cazzate e d’altra parte la facciamo lì, da Gianni perché è lì che siamo nati ed è lì che moriamo. Quella è una storia morta che non può rinascere”.

Però ormai la locanda è diventata un luogo quasi turistico. Ci vanno giovani e meno giovani a cercare di respirare un clima, a sentirsi parte di un passato che, nonostante l’infinità di lutti che ha arrecato al Paese, risulta affascinante come lo è il Male quando si traveste da nobili ideali.

Come "dargli torto"? La rivoluzione è finita e con essa anche i vari reflussi. Oggi da Gianni si ritrovano persone che 40 anni fa riuscirono a mettere sotto terrore un Paese intero, ma in loro c’è soltanto l’ammissione di una sconfitta. “Siamo stati sconfitti”, ripetono in coro. Ed è così, da sconfitti che si ritrovano per dare un senso a tutto, non bastando più i libretti rossi, i cortei, gli agguati e le P38 sguainate in faccia al nemico del popolo.

Ci si ritrova per cercare in quei volti un senso a tutto. Ancora una volta e nonostante i nonostante. Ma il tentativo resta privato e pateticamente insufficiente. In fondo sono tutti prigionieri di quel passato. Non c’è il desiderio di fare uno scatto, di portare un fiore sulla tomba di una delle vittime degli anni di piombo, non c’è il desiderio di chiedere perdono ad una moglie, ad un figlio. Non c’è pietà, non c’è commiserazione, non c’è dolore. C’è ancora la consapevolezza di essere nel giusto, ma di non essere riusciti nell’impresa. E tutto ciò conferisce un non so che di tragicamente incompiuto alla storia. Perché in quel piatto di tortelli oggi cucinato dal figlio di quel Gianni, che ovviamente non vuole avere nulla a che fare con questa rimpatriata, c’è il nostro passato che ritorna come un fantasma a interrogarci.

Oggi gli ex brigatisti si ritrovano soprattutto ai funerali dei compagni e lì intonano canti nostalgici e leggono scandendoli come in un martirologio i nomi dei loro “caduti” per mano dello Stato. Celebre il funerale di Prospero Gallinari dove a dare l’ultimo saluto al “contadino nella metropoli” c’erano loro, i reduci, compagno Curcio e Scalzone in testa. Ma anche tanti ragazzotti di qualche centro sociale.

Ma si ritrovano senza un moto di pentimento che li liberi da quei fantasmi, ostaggi e prigionieri di ideologie che ormai non dovrebbero fare più male a nessuno. Perché il loro messaggio è stato depotenziato dalla storia e anche dalla giustizia che si sono incaricate di togliere il grilletto a quella P38 consegnata da un partigiano ad Alberto Franceschini appena reduce dai funerali dei morti del 7 luglio 1960.

Si racconta che Scipione l’Emiliano pianse amaramente sulle rovine di Cartagine perché intravedeva in quel rogo la fine di Roma. “Verrà giorno in cui Ilio sacra andrà in rovina”, ci riferisce Polibio. Perché le vicende umane in fondo sono così: passano. Così sarà del terrorismo islamico che dopo aver seminato morti arriverà finalmente sul suo binario morto.

Anche la storia di questa tragedia italiana oggi ci arriva come un pallido ricordo e il vedere i protagonisti alle prese con forchette e cotechini, con gli acciacchi dell’età e il disincanto di un sogno fallito miseramente ci dà la misura delle cose di fronte all’eternità. In fondo, anche i dolori più grandi e le miserie più indicibili e gli ideali più elettrizzanti sono così poca cosa se paragonati al mistero del tempo eterno che ci attende.

All’uomo di fronte a questa vastità non resta che la memoria di quei giorni, perché diventi occasione di riscatto e possa trasformarsi da ricordo folcloristico in redenzione per gli errori commessi, per il dolore arrecato, a cominciare dalla propria coscienza. Ma quando i canti sono finiti e si torna a quella quotidianità che loro hanno rovinato in tante famiglie si resta soli, la complicità non è amicizia. E' solo solitudine distratta o disperata con i propri demoni. Così si fa memoria senza saperlo per rendere eterno il tragico portato delle proprie scelte. Ma si tende a ricacciare testardamente dall’abisso da cui li chiama il desiderio di salvezza. In fondo, in tavola l’altra sera, mancava solo questo all’appuntamento.