Tenta il suicidio a scuola: il vero problema non è il voto
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Salvo il 14enne di Ancona che si è gettato dalla finestra del liceo, dopo un 2 in matematica e una nota. Se un insuccesso scolastico spinge a un gesto disperato, occorre chiedersi quale senso della vita veicoliamo ai giovani.
Pochi giorni fa uno studente 14enne si è lanciato dal terzo piano del liceo scientifico da lui frequentato. Il fatto è avvenuto in classe durante la terza ora, alla presenza di tutti i compagni e della docente. Prima di aprire la finestra e gettarsi nel vuoto – si legge su Ancona Today – lo studente avrebbe aperto il suo quaderno e scritto alcune parole per salutare chi gli voleva bene. Grazie al Cielo, l’erba alta ha attutito l’impatto col terreno e il ragazzo non è morto. Interpellato in ospedale circa le ragioni del suo folle gesto, il giovanissimo ha spiegato i motivi raccontando di aver «preso un 2 in Matematica e una nota disciplinare», e di essersi «sentito umiliato». La paura di doverlo dire ai suoi genitori avrebbe poi fatto scattare l’estremo gesto.
Inevitabili, ora, le solite discussioni sulla utilità o dannosità dei voti, sulla necessità della presenza stabile di un presidio psicologico dentro le scuole, sulla “arroganza” dei docenti che si permettono di esprimere giudizi e valutazioni sugli alunni, mentre bisognerebbe fare in modo che imparino ad autovalutarsi. Sappiamo già, però, che non serviranno a nulla, perché il problema è tutt’altro.
Non è la prima volta, purtroppo, e probabilmente non sarà l’ultima, che assistiamo a reazioni sproporzionate o addirittura folli, a episodi di violenza verso gli altri (docenti e dirigenti compresi) o verso se stessi (autolesionismo, depressione, isolamento sociale, etc…), a seguito di un insuccesso scolastico. Certo, non è mai piacevole prendere un brutto voto o subire un rimprovero, fino alla nota scolastica; tuttavia, queste reazioni non sono figlie di simili episodi in senso stretto, ma di un contesto sociale, culturale e psicologico che è maturato in questi ultimi anni. Tanto è vero che una volta era rarissimo che si verificassero, mentre oggi sono quasi all’ordine del giorno. Chiediamoci; come mai, fino a pochi decenni fa, il brutto voto (o la nota) non suscitavano le medesime reazioni? Che cosa è cambiato? Perché, oggi, l’insuccesso è percepito come una tragedia e la scuola finisce sempre sul banco degli imputati?
Invece di stracciarsi le vesti, allora, rinfocolando infinite polemiche sul voto sì-voto no, può essere di aiuto un interessante saggio da poco pubblicato, dal titolo Per amore dei nostri figli (Sugarco, Milano 2024, pp. 192) di Francesca Romana Poleggi, direttore editoriale della rivista mensile Notizie Pro Vita & Famiglia. Ne parla Fabio Piemonte sulla Nuova Bussola Quotidiana: «si tratta di un volume particolarmente documentato che mette a fuoco ciò che fa male ai ragazzi attraverso argomentazioni di buon senso, dati e studi per stimolare una riflessione necessaria soprattutto a genitori, insegnanti ed educatori al fine di cogliere, anche dietro gli episodi di cronaca più tragici, le motivazioni profonde di un così acuto disagio nelle giovani generazioni».
L’equazione successo=senso della vita, si è ormai radicata profondamente nelle menti e nei cuori dei nostri giovani. Desiderare di aver successo non è cosa sbagliata in sé, ma è assolutamente fuorviante l’immagine e il contenuto del successo che le generazioni adulte hanno veicolato alle nuove generazioni in questi ultimi decenni. Spiegava don Luigi Giussani in un suo scritto (La coscienza religiosa nell’uomo moderno, Jaca Book, Milano 1985), che l’obiettivo della vita dell’uomo, dal Rinascimento in poi, si è progressivamente spostato dall’idea di “santo” a quella di “divo”. Il “divo” è colui che ha successo mondano, riconoscimento e popolarità costi quel che costi, potere sugli altri in forza del suo prestigio, della sua posizione nella scala sociale e/o della sua ricchezza. L’esatto opposto del “santo”. La cultura dominante dell’ultimo secolo ha in ogni modo incentivato questa visione, e oggi ci troviamo nella fase che fa seguito al culmine della parabola, quella discendente, cioè della decadenza, in cui si comincia a percepire fortemente – sia pure inconsapevolmente – il vuoto di senso di una simile posizione ma non si intravvede alcuna altra possibilità che ne prenda il posto.
Ecco allora che si comprende perché il filosofo psichiatra Benasayag parla di «epoca delle passioni tristi», in cui i giovani avvertono oscuramente che l’avvenire, da «futuro-promessa», fonte di sogni e speranze, diviene piuttosto «futuro-minaccia», ossia motivo di inquietudine, incertezza e precarietà. Il brutto voto, la nota, il mancato riconoscimento da parte degli altri, diventano allora insostenibili, perché profezia di un «futuro minaccia» che si avvera, come «testimonia purtroppo tragicamente l’aumento dei suicidi e dei disturbi psichiatrici tra i giovanissimi degli ultimi anni».
Se il valore e la dignità della persona si esauriscono nella sua dimensione puramente materiale e nella sua esistenza intramondana, con tutto ciò che questo comporta, non possiamo stupirci (ma solo dolerci) che accadano episodi come quello di cui si è parlato in apertura. Che speranza offriamo a questi giovani? A questi giovani che, abbagliati e trascinati da una vuota cultura della apparenza, finiscono per «disprezzare gli insegnanti per le auto con cui vanno a scuola e considerano più importanti gli influencer»…(Antonio Scurati, La Repubblica). Realmente, sta andando a compimento quella che don Giussani definiva «antropologia della dissoluzione». Dissoluzione esistenziale che giunge, purtroppo, al desiderio di dissoluzione fisica, allorquando le realtà si presenta con la sua inevitabile durezza.
Una grande responsabilità, in questo, grava sulle spalle delle generazioni adulte e anche della stessa scuola, che su una base di pensiero sostanzialmente materialista e relativista, fa da cassa di risonanza delle peggiori parole d’ordine del mondo attuale. Una scuola «sempre più burocratizzata e preoccupata di promuovere i temi dell’Agenda 2030 , infarcita di omosessualismo, catastrofismo ecologista ansiogeno e di veicolare una "cultura della morte", piuttosto che di educare i giovani a sviluppare un pensiero realmente critico e a costruire un bagaglio di conoscenze e competenze spendibili nella vita prima che nel lavoro».
Occorrono veri maestri, che «ripartendo dalla famiglia, dai principi della legge naturale e dalla fede», illuminino di speranza vera, quella che non muore, le vite di questi nostri poveri giovani, vittime inconsapevoli di un mondo di adulti che non ha più nulla di consistente da offrire.
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