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LA TESTIMONIANZA

Tel Aviv, dal paradiso all'inferno in un attimo

Fino a un paio di settimane fa, Israele era descritto come il paradiso: un paese pressoché interamente vaccinato, che entusiasticamente tornava alla vita pre-Covid. La guerra di Gaza ha fatto tornare l'inferno: pioggia di razzi e una vita nei rifugi. Più l'incubo della guerra civile che incombe. Testimonianza di una famiglia italiana di Tel Aviv

Esteri 20_05_2021
Tel Aviv

Fino a un paio di settimane fa, Israele era descritto da tutti come il paradiso in terra: un paese ormai pressoché interamente vaccinato, che entusiasticamente tornava alla vita pre-Covid. Un paese pacificato, dove le varie etnie e comunità religiose interagivano ormai in armonia. Un paese ormai pronto ad accogliere, dopo due anni, i pellegrini in Terra Santa. A metà maggio 2021, tutto cambia e l’incubo è tornato. Le parole chiave sono missili, terrore, risse per strada e bomb shelter. Un incubo non solo per i cittadini israeliani ma anche per i tanti stranieri che lavorano a Tel Aviv o Gerusalemme. Tra questi molti italiani, come i coniugi romani Luca Polizzi e Eleonora Pezzarossa, stabilitisi nella capitale israeliana un paio d’anni fa, nell’ambito delle attività diplomatiche tra l’Unione europea e Israele per la ricerca e l’innovazione.

“Siamo passati dal paradiso all’inferno – racconta Eleonora Pezzarossa alla Nuova Bussola Quotidiana –. Mai ci saremmo aspettati che la situazione sarebbe potuta degenerare in questo modo e in così breve tempo. Oltretutto a Tel Aviv, la situazione è sempre stata molto calma e i rapporti tra arabi e israeliani molto pacifici. Da Gaza sono arrivati almeno 3100 razzi, ma la cosa ancor più sconfortante è che, qui in città, le persone non si fidano più le une delle altre, tra arabi e israeliani le risse per strada sono ormai quotidiane…”.

Luca ed Eleonora si sono trasferiti a Tel Aviv assieme alla figlia di dodici anni e a due gemelli di otto. I bambini sembrano avere una paura relativa, sono stati istruiti dagli insegnanti sul pericolo e hanno capito perfettamente come comportarsi nelle emergenze. “A scuola li hanno sottoposti a numerose esercitazioni – spiega la madre – lì hanno il bunker nello scantinato. Sono stati bravissimi, mi hanno detto: ‘mamma, non ti preoccupare, ci hanno detto che bisogna scendere più calmi, altrimenti, se corri ti rompi l’osso del collo”. Nelle ville israeliane, il bomb shelter è collocato a livello del seminterrato e di solito è poco più grande di uno sgabuzzino. Mentre nei palazzi più moderni, è presente un bomb shelter per ogni piano, i palazzi sorti prima della proclamazione dello stato di Israele (1948) ne sono sprovvisti, e lì, quando c’è un attacco missilistico, “la gente si mette sulle scale condominiali – dice Eleonora –. È frequente vedere gruppi di persone che si radunano lì, a controllare i cellulari: ci sono app che informano sulle zone della città che vengono colpite e a che ora. Quando scatta la sirena, bisogna correre verso il bomb shelter ed arrivarci in novanta secondi. Grazie a queste app, è possibile geolocalizzare il bomb shelter più vicino”.

Per i locali queste emergenze sono la normalità. “Un’amica mi raccontò che il primo bacio lo aveva dato a quindici anni sotto i razzi che esplodevano…”, dice Eleonora. Per gli stranieri è tutto completamente diverso. Chi si è trasferito da meno di cinque-dieci anni, si era abituato a Tel Aviv come una città dall’altissima qualità della vita e dall’armoniosa convivenza. La spiaggia di Herzilya Pituach – dicono in molti – pare quasi una spiaggia californiana. Sul lungomare, vi sono anche molti ristoranti, con specialità di mare e gestiti da arabi: uno di questi è stato danneggiato gravemente la scorsa settimana e il proprietario è rimasto ucciso nelle esplosioni. Tanta tensione – dicono i locali – non si riscontrava da una trentina d’anni, per la precisione dalla Guerra del Golfo.

“Fino a ieri, eravamo vicini di casa, si viveva pacificamente nello stesso quartiere… perché oggi dovremmo guardarci male?”, si domanda ancora Eleonora Pezzarossa. L’attacco della scorsa settimana è stato così massiccio che – cosa mai successa – non è stato possibile intercettare tutti i missili. Nonostante l’attacco così violento, comunque, grazie al sistema di difesa, il numero dei morti e dei feriti è stato finora contenuto. “Per fortuna eravamo tutti in casa – prosegue Eleonora –. Prima abbiamo sentito le sirene, poco dopo le deflagrazioni. Quando poi i razzi arrivano a terra, la sensazione è la stessa di un terremoto. Siamo dovuti correre nel nostro bomb shelter, i bambini è una settimana che dormono lì: se la notte suona la sirena, non posso prenderli in braccio e portarli giù. Il bomb shelter è una sorta di box metallico con una porta simile a quella del caveau delle banche. Lì dentro hanno due materassi, cuscini e roba da mangiare e da bere”.

Sabato scorso, al momento del cessate-il-fuoco, Eleonora aveva incoraggiato i figli ad andare al parco e in piscina. Camilla, la dodicenne, era andata a un picnic con un’amica: al momento dell’allarme sono dovute fuggire. Per non perdere tempo, “mio marito è andato a prenderle in macchina”. Sabato scorso, in mattinata, tutti e tre i ragazzi sarebbero dovuti andare a catechismo a Jaffa, alla chiesa di Sant’Antonio. La suora incaricata, però, ha illustrato la situazione: un caos indescrivibile per strada e macchine incendiate. Il catechismo si sarebbe tenuto su Zoom. “I miei figli si sono comportati meglio di me – dice la Pezzarossa –. Sanno che la situazione è drammatica e che la gente muore ma non si fanno prendere dal panico. Giorgio mi dice: ‘mamma, la cosa migliore da fare è stare calmi e non reagire’. Dormire tutte le notti in un bomb shelter non è un’esperienza comune per un bambino europeo di otto anni. Ma loro non vorrebbero andarsene. Mi dicono: ‘mamma, Israele è un paese bellissimo, è la Terra Santa e poi ho tutti i miei amici qua…’”.

Tra gli stranieri adulti, invece, le sensazioni più diffuse sono la tristezza, la preoccupazione e lo sconforto. “La situazione è difficile, ci vorrà molto per uscirne – conclude Eleonora Pezzarossa –. Siamo preoccupati perché si teme qualcosa di più grave. L’aeroporto è stato attaccato e, al momento, è ancora chiuso, forse riaprirà in settimana. Evacuare con aerei militari sarebbe possibile solo se tutte le trattative fallissero. Siamo in Terra Santa, è vero, ma è una terra in cui c’è ancora molto da santificare…”.