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il saltatore

Tamberi, il figlio è un'asticella alla portata dell'uomo

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Il dramma di Tamberi, che ha inseguito il sogno dell'atletica rinunciando a un figlio, è lo specchio di una società anti familista che vede i figli come ostacolo. Ma anche la prova che il cuore dell'uomo desidera un compimento che nessun tipo di successo può dare. 

Editoriali 13_08_2024

Per Gianmarco Tamberi il passaggio da porta bandiera a porta croce è stato quanto mai repentino e drammatico. Arrivato a Parigi con tutti gli onori, il saltatore in alto era chiamato a ripetere l’oro olimpico di Tokyo e il primato mondiale del 2023 di Budapest. Invece, due coliche renali alla vigilia del salto decisivo hanno spezzato il suo sogno di riconquistare la medaglia più ambita.

Ha chiuso undicesimo e subito dopo la gara ha dato sfogo a tutta la frustrazione. «Non riesco a guardare avanti – ha detto a caldo -: oggi mi sento perso, e con me Chiara (sua moglie ndr.)»; «Ho dato tutta la mia vita allo sport, non merito tutto questo»; Poi, riferendosi al fatto che per l’atletica la coppia aveva rinunciato ad avere figli, ha aggiunto: «Se penso che tre anni fa potevo farmi una famiglia…».

Qualche giorno dopo, probabilmente con mente più serena, Gimbo è tornato davanti ai microfoni e ha detto: «Faccio fatica a pensare di mettere di nuovo lo sport davanti a tutto. Un pensiero che potrebbe cambiare domani, ma sicuramente devo qualcosa alla mia famiglia, ai miei amici, a mia moglie, e doverglielo significa dovere del tempo, volere avere una famiglia con mia moglie, voler vivere la mia vita anche non sportiva».

Di fronte alla miscellanea di emozioni di questo atleta viene in mente il monito di Gesù nel Vangelo di Luca: «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina sé stesso?». Mettere in cima a tutto il successo, fino al punto da sacrificare come ad un idolo anche il desiderio di avere dei figli o portare il proprio corpo al limite della sopportazione per raggiungere quegli standard necessari per volare due metri e passa, è uno dei mali contemporanei e non è certo un caso che questo desiderio quasi superomistico coincida con la drammatica crisi di figli del nostro Paese. Quando le priorità sono altre, a farne le spese sono sempre i bambini. Succede così anche nelle migliori famiglie dove mamma e papà pensano che prima debba venire la realizzazione personale, del loro compito di crescere i figli.

Ma torniamo a Tamberi che aveva programmato di avere un figlio solo dopo aver abbandonato le gare. Le sue parole sono la fotografia di una realtà ormai sotto gli occhi di tutti. Pensare di “fare un figlio” quando le cose sono a posto, in questo caso è superare l’asticella oltre i 2 metri e 45 fissati da Sotomayor, ma nella vita di tutti i giorni ci sono innumerevoli “giustificazioni”, la casa, il lavoro non sicuro, altri ostacoli più o meno impellenti, è mentalità comune ormai affermata.

Perché si vede il figlio come un ostacolo ad una realizzazione personale, non come un dono che nel cammino della vita migliora gli uomini nella realizzazione del loro progetto naturale. Invece un figlio tira fuori il meglio di te, toglie tempo per le passioni, ma dà quelle motivazioni e quella forza per portare a compimento un progetto di vita. Le cronache sportive sono piene di donne che hanno continuato a mietere successi anche dopo la gravidanza, ma quello che sicuramente è valido per tutti è che un figlio non toglie nulla al nostro tempo, semplicemente lo rende più fecondo di senso.

Oggi la mentalità anti-familista e abortista ha conculcato questa fissa della prestazione che deve sempre essere al top delle aspettative: e se un figlio deve anche solo sulla carta minacciare di vanificare la speranza di raggiungere il top, allora ci si rinuncia o lo si rimanda salvo poi pentirsene quando ci si rende conto che il tempo passa.

Rinunciando ad avere un figlio per inseguire il sogno dell’atletica, però, ecco che se il sogno dell’atletica si infrange, allora cominciano i dolori, i rimpianti e i rimorsi. Ma come? Ci si chiede: io ho rinunciato a tutto per questo obiettivo, anche a un figlio, e adesso che questo obiettivo si infrange che cosa mi rimane? Sono pensieri che chi vive di rimpianti coltiva quotidianamente. Ma questo, se per un certo verso è il dramma dei nostri tempi, è anche la sua salvezza.

Bisognerebbe guardare con maggior simpatia le ultime dichiarazioni di Tamberi per rendersi conto che la delusione olimpica lo sta destando dal torpore: «Non metterò più lo sport davanti alla mia vita» lasciando intendere che qualcosa è cambiato. È la prova che il cuore dell’uomo tira fuori il meglio proprio nelle delusioni e desidera un compimento di sé stesso in una relazione, in una compagnia di amici, in un figlio da generare. «Come frecce nelle mani di un prode, così sono i figli della giovinezza. Beati coloro che ne hanno piena la faretra! Non saranno confusi quando discuteranno con i loro nemici alla porta» dice il Salmista.

Tutto porta a pensare ai figli come veri e propri “nemici”. Del resto, media, tv, editoria, istituzioni, programmi elettorali e scuola non parlano a nessuno dei figli. Il figlio non è desiderato dalla società, non è promosso da una cultura perché sia fertile, non è messo in cima ai desideri dei giovani perché tutto concorre a considerarlo un ostacolo. Oggi a dire di volere dei figli e di volerne tanti si rischia l’accusa di patriarcato. Nella cinematografia italica domina la scuola romana fatta di commedie “alla vaccinara” con protagoniste coppie sterili, insoddisfatte, che si tradiscono e si lasciano e poi si riprendono e poi si ammalano e poi muoiono. E se ci sono figli di mezzo sono solo rogne e fatiche oppure egoismi reciproci.

Ma è nel fallimento di non aver superato l’asticella posta da una gara fin troppo crudele che Gimbo sta comprendendo che un figlio non è un ostacolo, la sua asticella non è alta come quella dello stadio olimpico di Parigi, ma è fissata ad altezza di uomo, capace di un uomo. Buon salto, Gimbo.