Spente quattro stelle del firmamento conservatore
James Q. Wilson, Priscilla
L. Buckley, Hilton Kramer
e Chuck Colson
hanno combattuto
la buona battaglia,
segnando profondamente
la storia del pensiero forte d'Oltreoceano.
La natura non può che fare il proprio corso, e così il firmamento del conservatorismo statunitense ha visto nelle ultime settimane spegnersi quattro stelle di prima grandezza.
Il 2 marzo è scomparso all’età di 80 anni James Quinn Wilson; il 25 marzo è morta, raggiunti i 90 anni, Priscilla Langford Buckley; il 27 marzo è deceduto l’84enne Hilton Kramer; e a 80 anni si è spento il 21 aprile Chuck Colson. Esistenze lunghe e piene, soprattutto di senso.
L'ACCADEMICO WILSON
Scienziato della politica ed esperto di amministrazione pubblica, James Q. Wilson è diventato famoso per avere interpretato al meglio la famosa dottrina della "tolleranza zero" contro la criminalità (micro e macro, organizzata e non) con cui negli anni 1990 il sindaco di New York Rudolph Giuliani ha fatto fortuna politica (all’epoca in cui ancora Giuliani faceva fortuna politica). Non ne fu il creatore (l’idea risale agli anni 1970 e al Partito Democratico), ma quella dottrina Wilson seppe perfezionarla e farla funzionare al meglio. Tutto partì dal saggio Broken Windows che nel marzo 1982, Wilson pubblicò, assieme al collega George L. Kelling, criminologo sulle pagine del periodico The Atlantic Monthly. Ebbene, quel mensile esprimeva ed esprime il contrario stesso di una cultura conservatrice, ma invece sia Kelling sia Wilson appartenevano a quel Manhattan Institute, che è stato una delle fucine più agguerrite del pensiero neoconservatore. È stato così che Wilson, pur mantenendo sempre un rigoroso distacco accademico da ogni correnti politiche, ha conquistato il cuore e la mente del popolo conservatore, e non solo quello di foggia "neo".
L’idea sua e di Kelling era semplice e tale resta: se si fa finta di nulla di fronte a un torto piccolo, a un’infrazione lieve o a un danno doloso ma limitato, si creano immediatamente, anche magari senza volerlo, le condizioni per una escalation mostruosa. Tutto sta nel titolo di quel loro saggio: se non punisci subito la ragazzata di chi rompe una finestra con un sasso, presto avrai una città invasa da bande di delinquenti strategicamente disposte, e a quel punto sarà ovviamente troppo tardi per invertire la rotta.
Wilson, che è stato il cuore più puro di questa idea semplice ed efficace, era però lontano le mille miglia dalla sua versione imbarbarita, tipicamente ideologica, quella del "colpirne uno, per educarne cento". Chi non ne ha compreso il pensiero, o chi quel pensiero non ha ostinatamente voluto comprenderlo, ha spesso usato nei suoi confronti toni sopra le righe, gridando persino allo “stato di polizia”, o al moralismo, o al puritanesimo. Niente affatto.
Il ragionamento di Wilson derivava infatti da una meticolosa analisi antropologica, affondando le radici nel più sano pensiero tradizionale. Giudeo-cristiano. L’idea da cui infatti Wilson muove è di fatto tomista, ed è quella che dice relazione all’habitus. Il bene e il male, cioè, sono concetti evidenti alla ragione, di diritto naturale. Nessuno può scambiare l’uno con l’altro, nemmeno l’ideologo più infingardo (tant’è che anche chi per esempio teorizza l’equivalenza tra furto e proprietà privata chiama prontamente i vigili se per strada un manigoldo gli sfila il portafoglio dalla tasca). Epperò la ragione non basta a guidare la volontà. La parte del leone la fa infatti la morale, cioè il comportamento: addestrato a seguire ciò che la ragione vede inequivocabilmente. Fondamentali sono dunque l’educazione e l’esempio, così come gli educatori e i modelli. Per compiere costantemente quel bene che la ragione vede senza inganni occorre cioè vivere costantemente e intimamente di quello stesso bene, farne pratica, abituarsi. Lo stesso accade, in modo speculare, per il comportamento malvagio: un’abitudine a non fare il bene. Il cosiddetto "criminale incallito", insomma, altro non è se non colui che è così abituato a operare il male da non avvertire più il problema. Non è che sia mutata la natura di quella persona, creata nel bene e al bene di per sé chiamata; si è smarrita, per abitudine, la sua volontà di operare il bene.
Da ciò, il progetto wilsoniano di educare la volontà correggendo soprattutto i particolari primi, perseguendo appropriatamente anche le scintille di male (la microcriminalità) prima che esse divampino in un incendio non più domabile (la macrocriminalità). Il diavolo, sapeva bene Wilson, sta davvero nei dettagli, persino in sociologia; dunque è lì che occorre anzitutto snidarlo.
Pur con tutti gli errori che la pratica umana sempre commette, questa criminologia esperta di umanità poiché radicata in una conoscenza amorosa della natura autentica della persona creata e ferita dal peccato ha dato frutti che sono lì tutti da contemplare. Ed è per questo che il suo "eroe" Wilson è divenuto un beniamino di quel mondo conservatore per definizione nutrito di philosophia perennis.
SORELLA BUCKLEY
Suo fratello, William F. Buckley jr. (1925-2008), è stato certamente più famoso. Ma Priscilla Buckley ha lo stesso legato il proprio nome a quello della fama meritata e virtuosa, essendo stata per decenni, dal 1959, la managing editor del periodico fondato nel 1955 e poi diretto dal fratello, National Review. Da direttrice editoriale - e/o amministrativa: l’espressione inglese tollera il concetto -, Priscilla ha con sagacia tenuto la bestia alla catena, controllando rigorosamente e accuratamente tutto, conti, distribuzione, abbonati, produzione. National Review è stata la "casa comune" giornalistica del conservatorismo statunitense: ovvio che fosse un "affare di famiglia". E se ha saputo essere un pilastro inamovibile di mezzo secolo di pensiero forte nordamericano, certamente lo deve non a uno ma a due Buckley, i fratelli Frank e Priscilla, cattolici.
Come William, negli anni 1950 dello scontro feroce tra comunismo e anticomunismo anche Priscilla collaborò con la CIA; e nemmeno a Priscilla è mai mancato il talento della scrittura che brillava in William. Sue gemme autentiche si trovano disseminate nelle pagine di National Review, ma un saggio di grande bellezza è il suo libro di memorie giornalistiche String of Pearls: On the News Beat of New York and Paris (postfazione di WF. Buckley jr., Thomas Dunne Books, New York 2001). Né è da meno Living It Up with National Review: A Memoir (premessa di W.F. Buckley jr., Spence, Dallas 2005), un vero e proprio pezzo di storiografia per partecipazione che illustra adeguatamente uno dei fulcri di tutta la storia del conservatorismo statunitense.
Con la sua di sorella Priscilla si è chiusa l’era Buckley, là dove la cronaca si fa subito storia. Quando un giorno si scriverà finalmente per intero e nei dettagli il racconto dei decenni ruggenti di quell’universo, i cammei costituiti da persone come Priscilla Buckley riluceranno preziosi.
KRAMER, L'ESTETA
Un po’ come James Q. Wilson, anche Hilton Kramer è stato ripetutamente confuso con i neocon. A parte il fatto che non vi sarebbe alcunché di male a essere di quel novero, oggettivamente la cosa non è vera.
Il campo specifico in cui egli ha per una vita intera indagato la verità delle cose è stata l’arte. Fattosi le ossa come critico per diverse influenti pubblicazioni, alla fine degli anni 1970 Kramer raggiunse una maturità di pensiero tale da convincersi che il mondo liberal, in tutte le sue sfaccettature, comprese quelle che lo trasformano in ideologia feroce a puntello delle ideocrazie totalitarie più turpi, è il contrario stesso del buon senso e del buon gusto. Per Kramer, la cifra più distintiva di tutto ciò è il nichilismo che palesemente ne deriva, e che nell’arte si rende particolarmente evidente. In quei gironi, però, Kramer combatteva ancora la propria buona battaglia dalle pagine di The New York Times, che è un po’ come fare l’abolizionista dentro una distilleria di liquori.
Nel 1982 decise allora di rassegnare le dimissioni e subito creò il periodico mensile The New Criterion assieme all’amico e collega Samuel Lipman (1934-1994), pianista e critico musicale. È da stato da subito una vera e propria bandiera. Sin dal nome, che ricalca volutamente, anzi rilancia il peridoco fondato e diretto fra 1922 e 1939 dal poeta e drammaturgo angloamericano T.S. Eliot (1888-1965). A suo tempo, The Criterion di Eliot fu il sublime tentativo, profuso tra le due guerre mondali, di raccogliere gli spiriti magni che ancora non avevano ceduto del tutto al nichilismo. Non furono tutte rose e fiori, ma con quel periodico Eliot fece comunque grandi cose; soprattutto testimoniò la possibilità concreta di una reazione culturale e spirituale vera al disfacimento dell’Occidente. Eliot chiuse il periodico, "per esaurimento" della spinta ispiratrice, nella prima metà del 1939, ma non era disperazione; fu subito rilancio. Infatti la prima cosa che egli fece subito dopo fu svolgere una serie breve di conferenze alla BBC, i cui testi furono poi raccolti e pubblicati in forma di libro con il titolo L’idea di una società cristiana. La chiusura di The Criterion produsse cioè il progetto di una nuova evangelizzazione, persino economica, sociale, politica. Quel libro uscì il 1° settembre 1939, il giorno in cui le truppe nazionalsocialiste invadevano la Polonia cattolica. La "nuova evangelizzazione" di Eliot dovette sospendersi con una drammaticità che evidentemente l’ebreo Kramer conosceva bene, e che però con "il nuovo Criterion" egli nel 1982 riprogrammava.
Con quel periodico Kramer ha combattuto battaglie culturali epiche, raccogliendo a sé nuovi spiriti magni: uno per tutti è il filosofo inglese Roger Scruton, che in campo artistico sta tra i migliori alfieri del tempo presente.
Ricordo distintamente la seconda metà degli anni 1990 quando, ospitandomi a pranzo in uno dei club più esclusivi e old-fashioned di New York, il suo preferito, di cui era socio da decenni, Kramer mi comunicò tutto il proprio scandalo per certe nefandezze pseudoartistiche, puntando il dito in specie contro una cosa che lo aveva particolarmente colpito in negativo, il famigerato Piss Christ del fotografo statunitense Andres Serrano. Kramer, che mai abbandonava l’aplomb, se la prese con la stampa liberal che lodava ritualmente schifezze simili e mi volle appassionatamente spiegare che il brutto non può mai essere arte, che l’orrido non va glorificato, che la scelleratezza è sempre è solo un’offesa. E più ne parlava più si appassionava giacché - mi disse - sapeva benissimo che il sottoscritto poteva reggere: «Lei che è cattolico», respirò profondamente l’ebreo Kramer, «capisce bene cosa intendo…». È stato un testimone eccezionale della via pulchritudinis che porta a Dio.
INFINE COLSON
La storia di Charles Wendell "Chuck" Colson è stata quella di un uomo politico potente, cinico e corrotto a cui Dio ha toccato un giorno il cuore nell’abisso più profondo del disastro umano stravolgendone l’esistenza. Colson fu accusato, processato e condannato al carcere per il ruolo nefasto che ebbe nel cosiddetto Scandalo Watergate e la prigione lo ha trasformato in un apostolo dei carcerati, in un pro-lifer granitico, in un credente esemplare. Nessuno si scandalizzi: Colson è stato uno di quei protestanti la cui vita può ben suggerire opere pie e fede profonda anche ai cattolici. Omnia munda mundis.