Somalia, Shabaab all'attacco. Il governo li coopta
Nella lunghissima guerra civile somala, il potente gruppo jihadista Al Shabaab è tornato a colpire. Ha condotto raid massicci oltre il confine etiope e ha condotto un attentato anche nel cuore della capitale Mogadiscio. Il nuovo presidente Mohamud promette di stroncare la minaccia. E al governo viene cooptato uno dei fondatori di Al Shabaab.
Tra le guerre “dimenticate” – dai mass media e dai politici italiani in verità, non certo dalla comunità internazionale – quella in Somalia in questi giorni è tra le più preoccupanti a causa dei suoi ultimi sviluppi. Va ricordato che la Somalia è teatro di una delle più lunghe e devastanti guerre civili africane. Era iniziata come rivolta contro il regime autoritario del presidente Siad Barre nel 1986. È continuata nel 1991, anno della destituzione del dittatore, perché i clan che compongono la tradizionale struttura sociale e politica del paese non hanno mai smesso di contendersi il potere: con scontri cruenti nei primi anni e, tuttora, con conflitti politici ai vertici. Nel 2006, inoltre, le componenti integraliste della popolazione, quasi interamente islamica, hanno formato un gruppo armato, al Shabaab, che da allora combatte contro il governo nazionale per imporre la legge coranica nel paese. Estromessi, grazie a interventi militari internazionali, dalla capitale Mogadiscio e da alcune importanti città che erano riusciti a conquistare, tuttavia gli al Shabaab controllano vasti territori nel centro e nel sud del paese e mettono a segno frequenti attentati.
Tre sono gli eventi recenti che destano allarme. Il 20 luglio centinaia di combattenti al Shabaab sono entrati nella vicina Etiopia, hanno attaccato due villaggi e ucciso 17 persone, tra militari e civili prima di essere ricacciati oltre confine. Il 25 luglio i jihadisti hanno di nuovo oltrepassato la frontiera e questa volta hanno attaccato Aato, una città. Secondo le autorità etiopi l’intenzione di al Shabaab è di creare una base in Etiopia e unirsi a qualche gruppo antigovernativo (in l’Etiopia dal 2020 il governo è sotto la minaccia di gruppi armati tigrini e di altre etnie). L’Etiopia protegge il proprio confine con la Somalia con l’esercito ed è la prima volta che al Shabaab riesce a compiere incursioni di questa portata, inoltrandosi in territorio etiope per circa 150 chilometri e impiegando circa 1.200 combattenti. Secondo esperti militari, gli attacchi hanno richiesto mesi di preparazione. L’Etiopia è uno dei paesi che fin dal 2006 ha inviato truppe in Somalia contro al Shabaab. Quando nel novembre del 2020 le truppe tigrine hanno iniziato l’offensiva contro il governo, un portavoce dei jihadisti aveva dichiarato: «non ci resta che incrociare le braccia e goderci lo spettacolo dell’Etiopia che si autodistrugge. Finalmente si avvicina il momento di colpire il nostro peggior nemico».
Un altro allarmante evento si è verificato il 19 agosto. Quel giorno un commando di al Shabaab ha attaccato l’hotel Hayat, nella capitale, frequentato da parlamentari e funzionari governativi. I jihadisti non si sono limitati a piazzare una bomba come succede di solito, ma si sono fatti strada facendo saltare in aria due automobili piene di esplosivo e sparando. Nel panico e nella confusione generale sono riusciti a entrare nell’edificio e se ne sono impadroniti prendendo ostaggi. Le forze di sicurezza hanno impiegato quasi 35 ore per uccidere tutti i terroristi e liberare gli ostaggi. Il bilancio delle vittime è di 21 morti e 117 feriti. È grave – commentano gli esperti – che non sia stato possibile sventare un attacco del genere nel cuore della capitale ed è grave che ci sia voluto così tanto tempo per avere ragione dei jihadisti, ma non è una sorpresa. La città è piena di unità delle forze di sicurezza, ma non esiste un comando centrale che ne coordini le azioni.
Questi due gravi attacchi jihadisti – contro l’Etiopia e all’albergo della capitale – si verificano a pochi mesi dall’insediamento del nuovo presidente della repubblica, Hassan Sheikh Mohamud, eletto lo scorso maggio. Mohamud durante la campagna elettorale e il giorno del suo giuramento aveva dichiarato che la sua priorità era sconfiggere al Shabaab con ogni mezzo. Lo ha ripetuto all’indomani dell’attacco all’hotel Hayak. Ma lo aveva già detto 12 anni fa, quando era stato eletto presidente per la prima volta. Allora aveva assicurato che i giorni dei jihadisti erano ormai contati. A distanza di dieci anni invece sono più forti, meglio addestrati e organizzati. A Mogadiscio riescono a colpire sedi di ambasciata, uffici pubblici, luoghi frequentati da parlamentari e rappresentanze internazionali. Il peggiore attentato, uno dei più gravi nel mondo, risale all’ottobre 2017 quando un'autobomba con centinaia di chilogrammi di esplosivo fatta esplodere nel centro della capitale ha ucciso più di 600 persone. Inoltre hanno creato un governo parallelo, riscuotono tasse e amministrano la giustizia nei territori sotto il loro controllo e anche al di fuori. Persino gli abitanti di Mogadiscio preferiscono ricorrere alla loro giustizia, più efficiente e meno corrotta dei tribunali governativi.
Nonostante le dichiarazioni bellicose e rassicuranti, in realtà il governo somalo quasi non esercita funzioni, adesso come dieci anni fa. Deve la sua esistenza ai contributi miliardari che gli vengono elargiti e, fin dal suo insediamento nella capitale nel 2004, alla protezione di truppe straniere.
Ed ecco il terzo motivo di allarme. Il presidente Mohamud ritiene che solo con la forza gli al Shabaab non si possano sconfiggere. Forse si potrebbe batterli, verrebbe da suggerire, se il governo dimostrasse efficienza e buona volontà, se smettesse di dilapidare i miliardi della cooperazione internazionale, se i capi clan rinunciassero a contendersi cariche e potere e si preoccupassero del bene comune. Invece lui e il primo ministro Hamsa Abdi Barre hanno deciso di usare un’altra arma, quella di accogliere nella compagine di governo un ex militante al Shabaab e di affidargli un ministero: gli affari religiosi. Il nuovo ministro è Mukhtar Robow, uno dei fondatori di al Shabaab, addestrato in Afghanistan. Era agli arresti domiciliari al momento della nomina il 2 agosto. La scelta ha suscitato reazioni contrastanti. Mohamed Mubarak, presidente del think tank somalo Hiraal, si dice convinto che servirà alla lotta contro gli al Shabaab perché li conosce a fondo, sa come ragionano. Ma dice anche che i jihadisti saranno sconfitti solo se si creerà una forza congiunta che comprenda truppe dell’Unione Africana, federali e regionali e milizie locali.
Altri esponenti politici somali la ritengono una scelta inaccettabile. Quell’uomo ha sulla coscienza troppi morti, le sofferenze di milioni di persone. Ma quei morti e quelle sofferenze sono sulla coscienza anche dei somali succedutisi nei vari governi e, prima, dei responsabili della guerra civile. L’irresponsabile inerzia governativa e la violenza jihadista hanno avuto e continuano ad avere costi elevatissimi per la popolazione. Al mezzo milione circa di morti civili causati dai combattimenti, vanno aggiunte le vittime degli attentati jihadisti e quelle delle crisi umanitarie: tra le peggiori, la carestia del 1992, con 250mila morti, quella del 2011, con più vittime ancora, forse 260mila, e quella attuale, che minaccia 4,6 milioni di persone. Nel corso degli anni, fino a 3,1 milioni di somali hanno cercato scampo oltre confine nei periodi più drammatici.
Il prossimo governo italiano ne dovrà prendere consapevolezza e discuterne. Nei loro programmi elettorali i partiti non parlano di come intendono gestire la cooperazione internazionale allo sviluppo e gli aiuti umanitari, per i quali ogni anno l’Italia stanzia miliardi e che costituiscono un aspetto rilevante della nostra politica estera. Ma dovrebbero farlo.