Siria, esempio di politiche miopi dell'Occidente
Per ottenere un vantaggio strategico immediato in chiave anti-russa e anti-iraniana, Stati Uniti e Unione Europea hanno favorito la vittoria di una formazione jihadista, mettendo le basi per problemi anche più gravi in un prossimo futuro.
Già è stato scritto che tanta euforia nelle cancellerie europee, e occidentali in genere, per la caduta di Bashar al-Assad in Siria è quantomeno azzardata, visto soprattutto da chi sarà rimpiazzato. Ma è interessante soffermarsi sulla sospetta necessità di una narrazione palesemente falsa – proclamata dai politici e sostenuta dai principali media - per giustificare le proprie ragioni politiche.
Ancora una volta si gioca a semplificare con la chiave di lettura democrazie contro dittature, liberatori contro oppressori. Ma tale tipo di schema, già discutibile nel conflitto in atto in Europa, nel panorama mediorientale diventa ridicolo.
La Siria degli Assad era una feroce dittatura? Certamente, e aveva anche mire espansionistiche se ricordiamo il ruolo avuto dalla Siria prima nella guerra del Kippur (1973) e poi nella guerra civile libanese (1975-1990) finita con la lunga occupazione siriana del Libano. Ma chi nella regione può scagliare la prima pietra contro Assad? Chi può ergersi a paladino della democrazia e della libertà? L’Arabia Saudita che applica la legge coranica, o la Turchia di Erdogan che persegue lo sterminio dei curdi? L’Egitto, la Giordania, il Qatar, gli Emirati Arabi, tutti Paesi che nei rapporti delle organizzazioni umanitarie hanno pagine e pagine a loro dedicate al capitolo violazione dei diritti umani? Senza considerare che le comunità cristiane, ad esempio, pur molto limitate nella loro libertà, in Siria godevano di uno spazio che, per quanto piccolo, è una chimera nei Paesi circostanti.
E l’esultanza per la fine di Assad appare ancora più assurda se si pensa a chi ha preso il comando a Damasco: jihadisti che hanno cambiato sigle ma non modus operandi, benché in Europa e Stati Uniti ora si cerca di dipingerli come moderati per poter tener viva la narrazione di cui sopra. Jihadisti in doppio petto, si potrebbe dire, per rassicurare la cosiddetta opinione pubblica internazionale (ammesso che esista), ma che in realtà stanno guadagnando tempo per consolidare il proprio potere dopodiché vedremo il loro vero volto. Esattamente come accaduto in Afghanistan con i talebani nel 2021.
La situazione è così paradossale che ora, per essere coerenti con la narrazione “Assad fonte di tutti i mali”, milioni di siriani che hanno trovato rifugio in Europa e altri Paesi del Medio Oriente ora rischiano di essere rimpatriati perché, si dice, in Siria non c’è più Assad ed è tornata la libertà. Peccato che la stragrande maggioranza di loro sia fuggita non da Assad ma dalla guerra civile iniziata nel 2011 e di cui Assad è stato solo uno dei protagonisti. E quanto alla libertà meglio lasciar perdere.
Ciò non significa che, per reazione, vada esaltato Assad, o fatto passare per martire, ci mancherebbe. Ma bisogna anche essere realisti. Il presidente siriano non è stato scalzato dal potere per la brutalità del suo regime ma perché alleato di Iran e Russia, perché la Siria filo-iraniana era una via di passaggio strategica per alimentare la guerra contro Israele, perché per quanto il regime fosse laico era una pedina importante nel conflitto islamico tra sunniti e sciiti. Si deve essere onesti: se Bashar al-Assad fosse stato filo-occidentale, per le nostre diplomazie e i nostri giornaloni avrebbe potuto continuare tranquillamente a reprimere nel sangue i suoi oppositori.
E qui c’è il secondo aspetto da sottolineare, ovvero la miopia di politiche estere basate sul principio che “il nemico del mio nemico è mio amico”. La Siria da tempo era considerato dagli Stati Uniti (e a ruota dall’Europa) l’obiettivo numero uno nella regione, quindi i jihadisti, gli unici ad avere la forza e il sostegno per abbattere il regime di Assad, per l’occasione sono diventati degli alleati. Nulla di nuovo, è uno schema ricorrente, ma si tratta di tattiche che – la storia lo dimostra - danno risultati positivi solo sul breve termine. L’Afghanistan, solo per stare all’ultimo esempio in termini temporali, dovrebbe avere dimostrato a sufficienza che un tale approccio si rivela ben presto un boomerang. Un male non si combatte con un altro male, o addirittura con uno peggiore.
Abbattere un regime che, malgrado tutto, teneva insieme un Paese in cui convivono diverse etnie e religioni, con una fazione religiosa estremista, porta con sé un’alta probabilità di una nuova guerra civile – come già accaduto in Iraq – e certamente una dittatura analoga alla precedente, se non peggiore.
Per Europa e Stati Uniti può esserci un guadagno immediato in chiave anti-russa e anti-iraniana, ma alla lunga ritrovarsi con la Siria, nel mezzo del Medio Oriente, in mano a un gruppo islamista radicale genererà molti più problemi per la stabilità nella regione. Stesso discorso vale per Israele, che ha subito approfittato della situazione per conquistare una porzione di territorio siriano, la zona cuscinetto nel Golan, in omaggio all’ideologia del “Grande Israele”. Ma nel tempo dovrà misurarsi con un nemico anche peggiore di Assad.
In ogni caso già da subito è chiaro che il cambio di regime a Damasco genera un’ulteriore espansione dell’influenza della Turchia nella regione, con ulteriore ridimensionamento dell’Unione Europea. Per cui a maggior ragione non si capisce che cosa ci sia da festeggiare a Bruxelles.
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