Sinead O’Connor, vittima del "dovere" di trasgredire
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Talento, irrequietezza esistenziale e religiosa, uso e abuso di sostanze: la morte della cantante irlandese porta a chiedersi perché il mercato musicale sembri favorire queste vite al limite.
Quando le agenzie hanno battuto la notizia della morte prematura di una cantante fra le più note e talentuose, l’irlandese Sinead O’Connor, si è riproposto nei commenti giornalistici il binomio genio e sregolatezza secondo cui soltanto se scavata dal dolore la voce dell’anima può uscire più pura. Il vecchio cliché romantico vale per cantanti, musicisti, poeti e artisti in genere, e spesso ci si chiede come sia possibile che tanti personaggi di successo, con i loro privilegi di ricchezza e fama, abbiano vite tanto tormentate, persino disperate. L’irrequietezza, non di rado simulata, come da contratto – sembra quasi un requisito per accedere a quelle carriere.
Certo, la vita esposta davanti al pubblico sottopone a pressioni. Da molti anni, la cantante – ammirata per la sua bravura, la forza vocale, l’interpretazione, l’energia che esprimeva nei concerti – non nascondeva il suo stato di sofferenza. Nata da famiglia numerosa, soffrì un trauma quando il padre abbandonò la famiglia. Tormentata da questa rottura, iniziò comportamenti antisociali, tanto da essere affidata a un collegio per ragazzi difficili, l’An Grianan, istituto di proprietà dello Stato e gestito dalle suore dell’Our Lady of Charity, del quale denunciò la severità. Visse l’obbligo di conformarsi a regole come una violenza e le punizioni come abusi.
Tuttavia, proprio lì una suora, notando la sua propensione al canto, le comperò una chitarra e le procurò un insegnante di musica. In quel periodo, la madre, con la quale aveva un rapporto conflittuale – affermava che la torturava psicologicamente – morì in un incidente. Nel 1985 decise di radersi i capelli perché – rivelò – voleva opporsi alla richiesta del suo manager di tenere i capelli lunghi “per essere più carina” e perché voleva evitare attenzioni non richieste.
Il successo arrivò nel 1987 con l’album The Lion and the Cobra – primo di 10 registrati in studio e altri live. Nel 1990 vendette milioni di copie con il singolo Nothing Compares 2U e poi arrivarono gli anni del successo planetario. Nel 1993, rievocando la morte della madre, accusava i genitori di aver distrutto il suo senso di autostima, e nello stesso anno fu salvata da un’overdose di sonniferi. Più volte annunciò il suo ritiro dalla musica.
Nel 1992, iniziò, sull’onda di altri artisti come Madonna, la sua protesta contro la religione cattolica – quasi un dovere fra i cantanti pop – con una foto di papa Wojtya strappata in diretta sulla rete NBC. A suo dire, il gesto le avrebbe danneggiato la carriera. In realtà, gesti simili sembrano più favorire che danneggiare e paiono ormai un lasciapassare per entrare nel mondo di quelli che contano. Nel 1999 si fece “ordinare prete” in una piccola chiesa scismatica, si avvicinò poi allo studio del giudaismo e infine si convertì all’islam cambiando il suo nome in Shuhada’ Sadaqat. Si faceva fotografare con addosso un velo abahja nero o verde, spesso con un arcobaleno a favore della causa LGBT. Questo transitare da una religione all’altra, da un’identità all’altra mostrava la sofferenza spirituale che la tormentava e la ricerca sfibrata di un senso.
Nel 2011, mentre registrava l’album Home, ebbe un crollo nervoso denunciando un disturbo della personalità. Sino ad allora aveva venduto molti dischi, fatto il pieno ai concerti, vinto premi internazionali. Probabilmente nel decennio successivo trovò molte porte chiuse, come denuncia il cantante Morrissey: «Era stata scaricata dalla sua etichetta dopo averle fatto vendere sette milioni di album. Era diventata bizzarra, sì, ma mai poco interessante. Non aveva fatto niente di male. Era orgogliosamente vulnerabile; e l'industria musicale ha una certa ostilità per cantanti che "non si adeguano" (…), e che non vengono ricosciuti finché muoiono». Bisogna essere bizzarri ma “funzionare” per l’industria rispettando scadenze e non facendo perdere soldi.
Negli anni aveva sviluppato anche un odio per “i bianchi” nel tipico stile “woke” ma al contempo era vicina alle posizioni dello Sinn Fèin, il nazionalismo irlandese. Difficile trovare una linea unica nella sua condotta se non quella di una ribellione confusa, comune a molti divi pop che devono unire le loro passioni alle richieste del mercato, le ribellioni personali a quelle sociali, lo scontento al marketing. Affermava che l’abuso dei minori era codificato dalla Chiesa e chiese per lettera a tre papi, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco di essere scomunicata, richiesta che dimostrava ignoranza sulla stessa religione che contestava e confusione su cosa sia una scomunica. Queste proteste scomposte sono tipiche del repertorio comportamentale della gente dello spettacolo. Nel caso della O’Connor non sembrano essere calcolate come quelle, ad esempio, più fredde di Madonna o Marilyn Manson.
A tutto questo, nel suo caso, si aggiungeva un consumo massiccio di cannabis, pillole analgesiche sonnifere, alcool e altre sostanze. Non sappiamo se queste dipendenze pesanti siano state la causa o la conseguenza degli episodi psicotici, dei tentativi di suicidio, delle depressioni. La parte finale della sua vita ricorda il caso di Amy Whineouse (1983-2011), morta dopo una vita passata tra depressione e abuso di alcool e droga. Un tributo necessario alla moda di questi anni pare sia stato il suo dichiararsi lesbica nel 2000 per smentire in seguito.
Questo vuole il mercato? Artisti tormentati, avvelenati dalla vita? Così pare: le case discografiche sono governate dal cinismo. A partire dal 1989, la O’Connor ha avuto tre mariti e diverse relazioni da cui sono nati quattro figli. Di questi ha perso la custodia, anche per i suoi otto tentativi di suicidio, e il più giovane, Shane, si è impiccato diciassettenne nel 2022: è stato il trauma definitivo, il dolore intollerabile ricordato nell’ultimo post della O’Connor. La sua morte solitaria arriva il 26 luglio 2023 a 56 anni. Secondo la BBC non è “sospetta”, probabilmente è legata all’abuso di qualche sostanza.
Al di là di tutto questo, ciò che si rileva è che il mercato della musica e dello spettacolo non ama le personalità stabili e serene. L’idea è sempre quella che soltanto l’infelicità, la follia, la dipendenza, l’odio, la sofferenza possano essere adatte a un artista che possa dirsi tale. Sono tutti così gli artisti? Assolutamente no, ma chi si mostra sereno pare interessare meno. Personalità fragili come la O’Connor, nel circo dello spettacolo, sottoposte a pressioni fortissime, di sicuro aggravano il loro stato. La cantante ha vissuto in un senso di vuoto e deserto esistenziale, psicologico, spirituale, un baratro che l’arte non può colmare. Le trasgressioni continue, alcoliche, farmacologiche, non alleviano.
In mancanza di eroi, gli adolescenti seguono questi modelli e si conformano a loro. Per quanto siano modelli ricchi di talento – la O’Connor aveva un grande talento –, il risultato non può che essere la moltiplicazione della sofferenza. Riguardo alla morte del figlio, il dolore più grande, aveva dichiarato: «Sono persa senza di lui», prima di cantare canzoni strazianti dedicate a «tutte le madri di bambini suicidi». «Il mio bellissimo figlio, la luce della mia vita oggi ha deciso di mettere fine alla sua lotta terrena e adesso è con Dio. Possa riposare in pace. Nessuno segua il suo esempio». Colpisce che infine, stremata, abbia affidato suo figlio all’abbraccio di Dio. Per ultimo, i suoi annunciati funerali islamici, secondo l’Irish Mirror, sono un segno impressionante del cambiamento dell’Irlanda che fu cattolica.