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RISORGIMENTO

Silvio Pellico prigioniero di Cristo

La reclusione nello Spielberg fu l'inizio di un profondo rinnovamento spirituale per il patriota italiano. Ma la sua conversione è stata sempre taciuta.

Cultura 19_03_2011
Silvio Pellico Fu il piemontese Silvio Pellico ad imporre al mondo la causa degli italiani. La pubblicazione nel 1832 della sua opera più famosa, Le mie prigioni, “costò all’Austria più di una guerra perduta”, come ammise in privato il cancelliere austriaco Metternich.

Arrestato a Milano nell’ottobre del 1820, Pellico fu condannato a morte per attività cospirativa, pena commutata in quindici anni di carcere duro da scontare nella fortezza dello Spielberg, a Brünn in Moravia. Graziato dall’imperatore d’Austria Francesco I, nell’estate del 1830 raggiunse la famiglia a Torino. Originario della provincia di Cuneo, Silvio Pellico nacque a Saluzzo il 24 giugno 1789. Secondogenito di Onorato e Maria Margherita Tournier, visse per alcuni anni a Lione, stabilendosi infine a Milano, città nella quale il padre aveva ottenuto un impiego pubblico. Nel capoluogo lombardo conobbe Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, con i quali instaurò rapporti culturali. Entrato nell’amministrazione napoleonica, ricoprì la carica di segretario della commissione di censura del Regno d’Italia e di professore di francese presso la Scuola Militare di Milano. Autore di teatro, raggiunse il successo dopo la rappresentazione in città della sua opera Francesca da Rimini.

Dopo l’arrivo degli austriaci abbandonò l’amministrazione statale per dedicarsi all’insegnamento privato. Nel 1816 ottenne l’incarico di precettore presso la famiglia del conte Luigi Porro Lambertenghi, nel cui salotto conobbe fra gli altri lord Byron e Stendhal. Nello stesso periodo progettò la realizzazione di alcune iniziative culturali, tra cui la stesura di un romanzo intitolato L’Italiano. Nel 1818 partecipò alla fondazione della rivista letteraria Il Conciliatore, la cui breve vita caratterizzò il dibattito intellettuale dell’epoca, attirando ben presto l’attenzione della censura austriaca. L’intervento delle autorità portò alla chiusura del giornale a poco più di un anno dall’inizio della sua pubblicazione. Deluso per la fine de Il Conciliatore, Pellico si dedicò alla stesura di un’altra opera teatrale, l’Eufemio da Messina, la cui rappresentazione fu però vietata.

Nell’agosto del 1820 aderì alla Carboneria dietro consiglio dell’amico, musicista e scrittore, Piero Maroncelli. Attivo negli ambienti della cospirazione italiana, Pellico viaggiò in Italia e all’estero promuovendo i propri ideali patriottici. L’arresto di Maroncelli da parte della polizia austriaca portò all’incriminazione dello stesso Pellico che in un primo momento riuscì a respingere le accuse. Trasferito da Milano a Venezia per essere interrogato da Antonio Salvotti, uno dei principali esponenti della magistratura austriaca, finì per cedere alle pressioni degli inquirenti, confessando la propria adesione alla Carboneria. Gli anni trascorsi allo Spielberg furono raccontati da Pellico nel volume Le mie prigioni, la cui stesura fu iniziata un anno dopo l’uscita di prigione. Il successo dell’opera fu enorme; divenne il libro italiano più famoso e letto nell’Europa del XIX secolo.

La grandezza del testo è rappresentata dal racconto della redenzione spirituale compiuta dallo scrittore piemontese nel corso della prigionia. Stupisce l’assenza di qualsiasi sentimento di vendetta o rivalsa del Pellico nei confronti delle autorità austriache. Ha scritto a proposito Angelo Jacomuzzi: «l’inferno delle prigioni diventa il luogo di un’esperienza di rinnovamento, intima e nello stesso tempo esemplare. La scoperta della naturale bontà dell’animo umano, la condanna dell’ira e l’esaltazione della carità, l’accettazione dei patimenti come mezzi di purificazione morale, la riconquista nei confronti dalle fede sono gli elementi principali che compongono questo itinerario spirituale, nei cui esiti si legge l’esplicito rifiuto di qualsiasi odio politico in nome dell’amore cristiano».

Il cammino spirituale
condotto portò il Pellico a rivedere la propria iniziale impostazione di rivoluzionario carbonaro. All’inizio della sua opera egli confessa di non voler parlare di ritornare al passato. «Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amate maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro». Una volta libero, l’autore de Le mie prigioni condannò qualsiasi forma di violenza indicando ai popoli la strada della pace e della fratellanza. Per Aldo Mola, Silvio Pellico «fu il simbolo dell’Italia in cammino, di un’Europa che prima o poi avrebbe imposto al potere assoluto due esigenze concatenate: riconoscimento delle nazioni e libertà civili e politiche».

Nei confronti delle proprie vicende lasciò il seguente ammaestramento: «Ah! Delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene ed il male che mi sarà serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch’ella sa adoprare a fini degni di sé». Silvio Pellico morì a Torino il 31 gennaio 1854.