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Silvio Pellico: poco carbonaro, molto cristiano

In tempi di ripartenza dopo un lungo periodo di limitazione della nostra libertà, con la giustificazione della pandemia, e in clima di rivendicazione accesa dei nostri diritti - pur irrinunciabili - può essere illuminante per costruire il futuro conoscere meglio un grande italiano dell’Ottocento, Silvio Pellico. Le pagine del famosissimo “Le mie prigioni” e del meno noto ma davvero edificante “Dei doveri degli uomini” riservano più di una sorpresa.

Cultura 01_06_2021

A 160 anni dall’Unità d’Italia e nella prospettiva urgente di far ripartire il nostro Paese, non solo affidandosi ai programmi del Recovery Plan, non è affatto inutile riflettere su che cosa possa essere basata la rinascita del popolo italiano. A questo proposito è bene ricordare il lungimirante appello che il cardinale Angelo Bagnasco, da presidente della Cei, lanciò nel 2011 in occasione della ricorrenza dei 150 anni dell’Unità. Appello che risulta più che mai attuale e ricco di promesse. Il tempo in cui viviamo “dovrebbe trasformarsi in una felice occasione per un nuovo innamoramento del nostro essere italiani”, perché “noi pensiamo che ci sia qualcosa di importante da far succedere nelle nostre coscienze: far riemergere il senso positivo di essere italiani. Servono visioni grandi… per nutrire gli spiriti e seminare nuovo, ragionevole ottimismo”.

Un grande intellettuale e patriota che ha dato un contributo decisivo alla formazione degli italiani è sicuramente Silvio Pellico (1789-1854), condannato al carcere duro nella tetra fortezza dello Spielberg a Brno, in Moravia (oggi Repubblica Ceca), di cui almeno vagamente si ricordano persino gli studenti meno attenti delle nostre scuole. Tra i fondatori del giornale risorgimentale Il Conciliatore, prontamente soppresso dalla censura di Vienna, nella sua battaglia per la liberazione dell’Italia dal dominio dello straniero non usò mai altra arma che la penna. Nonostante questo, il 13 ottobre 1820 venne arrestato dalla polizia austriaca insieme con altri patrioti, tra cui l’amico Piero Maroncelli. Accusato di appartenere a una setta segreta carbonara, venne condannato a morte. La pena capitale fu poi commutata in quindici anni di prigione da scontare appunto nello Spielberg. Durante la detenzione scrisse la sua opera più nota, Le mie prigioni, un libro fra i più letti in Europa, ma che in realtà lancia un messaggio ai più sconosciuto.

Il diario di Pellico è infatti una vera e propria riscoperta della fede in cui fin da bambino era stato educato con amorevolezza dalla mamma. Un percorso sofferto, il suo, per passare dalla ribellione al destino crudele della condanna all’accettazione di una sventura permessa da Dio. “E chi sei tu, o misero mortale, per pretendere che niun tuo simile ti giudichi severamente? Per pretendere che niuno ti possa far del male di buona fede, credendo d’operare con giustizia? Per lagnarti se Dio permette che tu patisca piuttosto in un modo che in un altro?”. Silvio imparò così a vivere la sua difficile prigionia non come un’ingiustizia insopportabile, ma convinto che “la sventura non degrada l’uomo, s’ei non è dappoco, ma anzi lo sublima”. Nei momenti di dubbio e di sconforto aveva infatti scoperto che “ove regna superbia non rinviensi altro Dio che se medesimo”. È la triste condizione dell’uomo contemporaneo, così rabbioso di fronte a eventi e circostanze che non riesce a controllare perché si ritiene padrone del mondo.

Ma come visse concretamente, giorno dopo giorno, la lunga e sofferta prigionia? Nei pochi momenti in cui era possibile scambiare qualche parola con un amico condannato, si incoraggiavano a vicenda per vincere la tentazione del suicidio per le terribili condizioni di fame, freddo, solitudine e malattia in cui si trovavano. Si dicevano l’un l’altro: “Parliamo di Dio; eccitiamoci ad amarlo; ci sovvenga che Egli è la giustizia, la sapienza, la bontà, la bellezza”. Quando fu finalmente liberato, raccontò tutto ciò che aveva patito all’abate Giordano, venerabile ottuagenario e suo confessore, che gli consigliò di scrivere le sue memorie e di pubblicarle. Il patriota non era convinto, temeva calunnie e condanne politiche e si sentiva stanco. Ma l’abate insistette: “Due sorta di riposo vi sono; il riposo delle anime forti, e quello dei pusillanimi; quest’ultimo è indegno di voi, è indegno di un cristiano”. E Pellico scrisse il suo racconto sincero, anche se gli suscitò antipatie (persino del caro amico Maroncelli con cui aveva condiviso la terribile prigionia) e non fu compreso da chi disse che quello era un libro “da far vergogna in questo secolo di lumi”. Vergogna che forse permane ancor oggi, quando si presenta agli studenti sulle antologie scolastiche solo qualche paginetta sulle crudeli sofferenze dello Spielberg, senza lasciar intravedere la potenza trasformatrice di quella fede, vissuta in profondità dall’autore delle Prigioni, capace persino di suscitare conversioni in alcuni lettori del tempo.

Un’opera meno nota di Pellico, Dei doveri degli uomini, conferma il suo impegno per il popolo italiano e i valori a cui si ispirava. Si tratta di un “discorso a un giovane” - idealmente rivolto a tutti i suoi coetanei - che ha questo scopo dichiarato: “Gioventù della mia patria, offro a te questo picciolo volume, con desiderio intenso che ti sia stimolo a virtù, e cooperi a renderti felice”. Che meraviglia leggere le semplici ma profondamente vere indicazioni per la realizzazione di una vita piena e costruttiva, aldilà del linguaggio ottocentesco un po’ desueto. Si parte dall’abc: la necessità e il pregio del dovere, l’amore alla verità, il valore della religione, l’importanza della carità, della stima dell’uomo (di tutti gli uomini), l’amore della patria (“Se un uomo vilipende gli altari, la santità coniugale, la decenza, la probità, e grida: ‘Patria! Patria!’ non gli credere. Egli è un ipocrita del patriottismo, egli è un pessimo cittadino”). Ma vi sono pure osservazioni sull’amor filiale (“Che dire di coloro che pretendono d’amare la patria, i quali ostentano eroismo, e mancano a sì alto dovere qual è la pietà filiale?”), sul rispetto “a’vecchi e a’predecessori”, sull’amor fraterno, sull’amicizia (“Siamo debitori di benevolenza a tutti i mortali… ma non disonorare il sacro nome d’amico, dandolo ad un uomo di niuna o poca virtù”).

Non manca in questo lungimirante “manuale” per i giovani un prezioso consiglio ancor valido e di sicura attualità oggi, dopo quasi due secoli. Cioè l’esortazione ad avere piena coscienza di dovere ”onore” alla donna, con ripetuti richiami sul “rispetto a fanciulle e mogli altrui” e sul valore del matrimonio. Sembra un mondo lontano, quello che Silvio Pellico ci propone, dove si invitava al riguardo per la sventura altrui, alla stima del sapere, alla gentilezza e alla gratitudine. Sono principi di comportamento essenziali per lui anche l’umiltà, la mansuetudine, il perdono e il coraggio. Che alta visione della vita emerge da questo trattatello! Sarebbe davvero utile, a giovani e adulti di oggi, tenerne conto per avere una visione ampia e non superficiale della trasformazione della società, come fondamento di quel “Piano nazionale di ripresa e resilienza” su cui si vorrebbe costruire il nostro futuro.