Serve un cambio di politica internazionale
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Quale che sia la matrice, l'attentato di Mosca rivela che è necessaria da parte degli stati occidentali una reimpostazione della politica internazionale secondo il criterio del realismo, del bilanciamento delle forze e degli interessi.
Non tutto ancora è chiaro riguardo alla matrice del sanguinoso attentato compiuto a Mosca al Krokus Club la sera del 22 marzo scorso. Ferma restando la paternità rivendicata da una costola afghana dell'Isis e l'esecuzione di esso da parte di terroristi di nazionalità tagika, restano molti dubbi e interrogativi sui reali scopi dell'attacco. Dubbi e interrogativi che naturalmente, nel clima infuocato dal conflitto russo-ucraino, dalla tensione alle stelle tra Russia e Occidente e dagli altri fronti di polarizzazione attualmente aperti sul piano internazionale, ogni attore e schieramento indirizza per proporre dell'accaduto una interpretazione più o meno “dietrologica” secondo la quale il regista dell'operazione è il suo antagonista, considerato capace di ogni nefandezza.
E così Vladimir Putin e i vertici del governo russo hanno immediatamente puntato i loro sospetti sull'Ucraina, tutti gli ambienti anti-occidentali in giro per il mondo hanno ipotizzato una regia della Cia, dei servizi britannici, del Mossad e simili, e per converso dall'Occidente più schierato contro Putin è stata proposta, neanche troppo velatamente, l'idea che l'attentato sia stato consentito, o addirittura architettato, dal regime russo per cementare il consenso intorno alla guerra, o addirittura per giustificare una escalation.
Nel groviglio delle spiegazioni complottistiche in casi e in contesti come questi diventa quasi impossibile districarsi, ed è prevedibile che i tentativi di strumentalizzazione del gravissimo episodio per fini di ragion di Stato da varie parti continueranno. Per questo è opportuno attenersi ai dati attualmente verificabili, e a partire da essi cercare di offrire un'interpretazione dell'evento all'interno del contesto complessivo dell'attuale politica internazionale.
Il primo dato emergente è che le organizzazioni islamiste come l'Isis, nelle loro varie articolazioni locali – per quanto possano essere in questo caso legate ad altri soggetti, o usate da essi – sono sicuramente ancora attive e capaci di colpire in maniera dolorosa, e che anzi esse ritengono di poter approfittare di una situazione internazionale in cui gli elementi di attrito sono innumerevoli e profondi per tornare ad incidere come più volte, attraverso la loro rete di terrore, sono riuscite a fare nei decenni scorsi.
Che si tratti di indebolire la Russia putiniana, ricca di minoranze musulmane e da tempo intenta nella sua politica interna ed estera a un difficilissimo gioco di equilibrio con il mondo islamico, o di tornare a colpire al cuore i “crociati” europei e occidentali, è evidente come il mondo jihadista ritenga che nell'attuale situazione di radicalizzazione del conflitto russo-ucrino e di quello mediorientale si offrano ad esso molte nuove occasioni di ottenere quello che rimane il suo obiettivo principale: destabilizzare il Medio Oriente, l'Asia centrale e il “Nord” del mondo che in un modo o in un altro esercita su quelle regioni la sua influenza per guadagnare terreno e insediare enclaves di potere in questo o quel territorio.
Il secondo dato, correlato a questo ma più generale, è che le contrapposizioni di potenza radicali e in magmatica evoluzione maturate progressivamente sul piano mondiale nell'ultimo decennio, e il livello di tensione diffusa da esse provocato, costituiscono uno scenario in cui naturalmente si moltiplicano le opportunità per tutti i soggetti intenzionati a gettare ulteriore benzina sul fuoco, e ogni episodio può determinare una escalation conflittuale la cui evoluzione può in breve tempo sfuggire al controllo di governi e diplomazie.
L'attentato di Mosca dovrebbe innanzitutto richiamare la nostra attenzione sul fatto che la dialettica politica e militare mondiale attuale, nonostante si sprechino da parte di molti osservatori i riferimenti analogici superficiali alla guerra fredda, è distante anni luce dall'equilibrio bipolare consolidato e sistematico del lungo confronto tra Stati Uniti e Urss, ed è parimenti ormai molto lontana anche dall'assetto del periodo immediatamente successivo alla guerra fredda, in cui all'instabilità in rapida evoluzione del mondo post-sovietico e ai movimenti della prima fase della globalizzazione corrispondeva l'unipolarismo incontrastato (almeno tale sembrava allora ai più) della superpotenza statunitense vincitrice.
Oggi siamo ormai in un mondo inevitabilmente pluripolare sia a livello economico che di potenza, senza chiare distinzioni gerarchiche. E per di più si tratta di un multipolarismo non consolidato né sistematico, bensì fluido, sottoposto a mutamenti e scossoni continui, innervato da contrapposizioni di civiltà e culture. In esso la pretesa di molti attori di assumere un rilievo regionale o planetario ha non soltanto eroso l'egemonia di potenza statunitense-occidentale, ma ha reso di fatto impossibile qualsiasi convergenza intorno all'idea di una pretesa “comunità internazionale” più o meno latamente ispirata ai principi etico-politici storicamente propri dell'Occidente, e favorito al contrario una convergenza crescente tra attori anche molto diversi e confliggenti tra loro dal punto di vista geopolitico e culturale in nome proprio dell'anti-occidentalismo: del quale il conflitto russo-ucraino è stato uno tra i principali catalizzatori, e quello arabo-israeliano è stato scientemente, brutalmente riattizzato da Hamas e dai suoi patroni (l'Iran degli ayatollah) allo stesso scopo.
In tale contesto, in cui non sembrano sussistere criteri comunemente accettati di prudenza e disciplina dei rapporti internazionali, la possibilità di una reazione a catena che inneschi un conflitto su larga scala, in breve tempo non più controllabile, non sono il frutto di fantasie catastrofistiche, ma purtroppo di valutazioni realistiche.
Al cospetto di una situazione così problematica e potenzialmente esplosiva, sarebbe necessaria dunque da parte dei governi e delle cancellerie occidentali una riflessione profonda e radicale sull'impostazione della loro politica estera. Il momento storico richiederebbe la messa da parte, in tale ambito, di approcci moralistici, di toni da crociata, di appelli alla difesa intransigente dei “principi” occidentali, di demonizzazione degli avversari, che si sono già ampiamente dimostrati controproducenti, se non catastrofici, nell'ultimo ventennio. Richiederebbe una meditata, consapevole reimpostazione della politica internazionale secondo il criterio del realismo, del bilanciamento delle forze e degli interessi.
Richiederebbe una strategia coerente volta a raffreddare i maggiori fronti di contrapposizione, e a porre le basi per una evoluzione del multipolarismo globale in sistema stabile, caratterizzato da confini e aree chiaramente definiti, e da un'idea il più possibile condivisa della sicurezza tra i soggetti di maggiore peso.