Senza tradizione l'inculturazione è una parola vuota
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La sfida di incarnare il cristianesimo in specifiche culture non è esente da fraintendimenti. Il primo dei quali è il sospetto sulla cultura europea dei missionari, dimenticando che essa stessa è stata plasmata dalla fede. Qualche esempio dalla Cina.
Uno dei temi più significativi su cui si è concentrata l’attenzione del pensiero cattolico degli ultimi decenni è quello dell’inculturazione. Questa parola, usata a volte a proposito, spesso a sproposito, indica lo sforzo di incarnare il messaggio cristiano in specifiche culture.
A volte ci si è concentrati troppo sul punto di approdo, le culture, ma non su quello di partenza, il cattolicesimo. Si è pensato che il solo fatto di apprezzare una cultura significasse già aver compiuto l’inculturazione, ma questo, oltre a non corrispondere al vero, è profondamente sbagliato. È importante non solo chi riceve il messaggio, ma anche chi lo invia. Se non si tiene conto dell’insieme di insegnamenti e tradizioni che si trasmettono, la pretesa inculturazione diviene una parola vuota.
Specialmente nei Paesi che non hanno una tradizione cristiana, occorre rendersi conto che non è la loro cultura ad arricchire il cristianesimo, ma il cristianesimo ad arricchire la loro cultura. Quindi, il meglio della loro cultura, vista da una prospettiva cristiana, si incarna nella tradizione cattolica sempre antica e sempre nuova.
Purtroppo tutto un movimento che ha preso forza nel primo ventennio del secolo XX ha fomentato l’idea che i missionari del passato non cercavano di portare la cultura cattolica, ma la cultura europea, senza riflettere sul fatto elementare che la cultura cattolica non è un prodotto della cultura europea, semmai è la cultura europea un prodotto della cultura cattolica. Quindi, quello che i missionari portavano era un deposito di fede, arte, eccetera, che aveva arricchito la loro stessa cultura secoli prima.
Questo problema fu sentito in modo molto vivo grazie all’azione del missionario lazzarista belga Vincent Lebbe (1877-1940), non sempre equilibrato nelle sue azioni e tendente all’oltranzismo, e a quella del primo delegato apostolico in Cina Celso Costantini (1876-1958), voce senz’altro più autorevole per i suoi forti interessi nel campo dell’arte sacra. Ricordiamo il suo manuale per i missionari del 1940, L’arte cristiana nelle missioni.
Come abbiamo detto, il dibattito ad un certo punto sembrava chiuso nella scelta fra cultura europea e cultura cattolica, anche se questo è certamente un punto di vista che parte da premesse sbagliate. Uno dei campi di maggiore attrito è stato quello dell’architettura religiosa. Come fare in modo che un edificio sia cattolico ma che parli anche ad una data cultura?
Innanzitutto se uno stile è bello, può esserlo in tutte le culture. Negli anni ‘30 ad Hong Kong ci fu il dibattito per la costruzione della chiesa di santa Teresa di Gesù Bambino fra chi spingeva per forme architettoniche cinesi, chi per quelle dell’architettura cattolica tradizionale. L’architetto, il benedettino belga Adelbert Gresnigt (1877-1956) preparò due progetti assecondando le due tendenze e malgrado mons. Costantini pendesse decisamente per il progetto cinese, i committenti si orientarono su quello tradizionale (v. sopra). C’è da dire che lo schizzo (a sinistra) che si conserva dell’edificio in stile cinese dimostra che sarebbe comunque stato un edificio liturgico di tutto rispetto.
Un esempio in ambito cristiano non cattolico si può vedere in un altro edificio per il culto della locale comunità anglicana, la chiesa di Santa Maria (foto accanto) nella popolosa zona di Causeway Bay, la cui facciata armonizza gli elementi cristiano-tradizionali con quelli cinesi. La chiesa, più o meno coeva di quella cattolica di Santa Teresa di Gesù Bambino costituisce un interessante esempio di inculturazione.
Si può prendere dalle culture locali quando si conosce bene la propria, sosteneva San Gregorio Magno nella sua lettera agli evangelizzatori degli Angli. Mons. Costantini nel testo sopra citato diceva: «Il missionario, con la sua fine sensibilità, percepisce meglio che mai la necessità di svestire la propaganda evangelica da tutte quelle forme accidentali, che la rendono sospetta come se la religione cattolica fosse una importazione estera. Ció che ieri, in certe regioni, aveva un certo prestigio perché era estero ed era accettato come si accetta una moda, oggi è generalmente avversato e respinto appunto perché estero».
È un modo di ragionare che appare quanto mai pericoloso perché racchiude sotto la definizione di “moda” secoli di attività pastorali e culturali compiute dai missionari non a gloria dei loro Paesi (aspetto comunque presente), ma soprattutto a gloria della Santa Madre Chiesa.