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Senza gli africani nessun “piano” per l’Africa è efficace

Il Papa e Meloni rilanciano una cooperazione con Europa e Italia per risolvere i problemi del continente nero. Proposta non nuova ma inadeguata finché si dimentica che terrorismo e migranti vengono anche dall'Asia e si dà per scontata l’incapacità degli africani, a fronte di un’Europa che fatica ad aiutare anche sé stessa.

Attualità 11_11_2022

«L’Europa deve varare un piano di sviluppo dell’Africa dove alcuni Paesi non sono padroni del proprio sottosuolo e la gente viene sfruttata in maniera terribile. Se vogliamo risolvere il problema dei migranti, risolviamo i problemi dell’Africa».  «L’Italia deve farsi promotrice di un “piano Mattei” per l’Africa, un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista». A parte l’espressione “piano Mattei”, al posto del solito “piano Marshall” per l’Africa, più volte proposto nel corso degli anni, di per sé le dichiarazioni riportate non esprimono concetti e intenti sostanzialmente nuovi. Tuttavia, meritano attenzione perché sono state fatte la prima dal Papa, che è la nostra massima autorità morale, e la seconda dal nostro Presidente del Consiglio.

La prima riflessione che le due dichiarazioni suggeriscono deriva dal loro concentrarsi sull’Africa parlando di due fenomeni mondiali. Sia l’emigrazione illegale verso l’Europa sia il radicalismo islamista sono fenomeni presenti ovunque. Quest’anno un terzo degli emigranti finora sbarcati in Italia, 30mila persone, proviene da cinque Paesi asiatici soltanto, in testa il Bangladesh con quasi 13mila arrivi. Al Qaeda è stata fondata da Osama Bin Laden, l’Isis da Abu Musab al-Zarqawi. Entrambe le organizzazioni si sono insediate e consolidate in Paesi asiatici prima di diffondersi in Africa. Stranamente, però, l’Asia non viene mai tirata in ballo. Nessuno dice che per fermare immigrati e jihadisti bisogna risolvere i problemi dell’Asia, che l’Europa deve creare piani di sviluppo per l’Asia e per i suoi Paesi.

È come se invece quelli africani non fossero Stati sovrani come quelli asiatici e tutti gli altri, ma fossero ancora colonie europee; non ci fossero l’Unione Africana, le comunità economiche regionali, la Banca africana di sviluppo; gli africani non disponessero di eserciti nazionali e regionali: e fosse quindi compito, responsabilità e diritto europeo risolverne i problemi economici, sociali e di sicurezza. Oppure è come se gli africani non fossero ancora in grado di decidere da sé e di se stessi benché lo abbiano fatto per millenni e solo per pochi decenni siano stati sottomessi e dipendenti da governi stranieri: e anche allora, sotto dominio coloniale, sono stati capaci di scegliere il loro futuro, prova ne sia che sono insorti, hanno rivendicato il diritto all’autodeterminazione e hanno lottato per diventare indipendenti.

La seconda, alquanto amara riflessione riguarda l’effettivo ruolo che l’Europa può svolgere, posto che sia suo dovere e diritto assumerlo. È indubbio che gli emigranti diretti in Europa, quelli illegali beninteso, e i jihadisti affiliati ad al Qaeda e all’Isis pongano problemi che ormai riguardano l’umanità intera e che richiedono provvedimenti urgenti per essere risolti. Ma l’Europa attualmente non sembra in grado di programmare neanche il proprio sviluppo, figurarsi quello di altri continenti. L’Italia in particolare presenta tassi di povertà, di disoccupazione e di emigrazione per motivi economici (specie nella fascia di età giovanile) troppo elevati per pensare che possa e debba farsi carico di piani globali di sviluppo in Africa o altrove.

Un’ultima riflessione. La scelta delle parole è importante. «Un modello virtuoso di collaborazione tra Unione Europea e nazioni africane» suona meglio che «risolviamo i problemi dell’Africa». Ma, allora, con chi collaborare, esattamente? Da mesi, l’unica buona notizia dall’Africa è la sospensione dei combattimenti in Etiopia dopo due anni di guerra, posto che duri. Pessime notizie invece continuano ad arrivare dalla maggior parte dei paesi: in particolare, da Mali e Burkina Faso, sempre più devastati dal jihad che i governi non combattono e anzi alimentano, Sudan, dove a uccidere sono i conflitti tribali e i militari autori di due colpi di stato in tre anni, Sudan del Sud, che ha conosciuto finora solo due anni di pace (nel 2013 le due etnie dominanti, 25 mesi dopo l’indipendenza dal Sudan, hanno scatenato una guerra per il potere), Repubblica Centrafricana, senza pace nonostante i tavoli di trattative e le tregue promesse dal 2013, Nigeria, alla prese con una violenza ormai fuori controllo, che non risparmia nessuno, Ghana, colpito da una inspiegabile, gravissima crisi economica (dalla quale il presidente Nana Akufo-Addo cerca di distogliere l’attenzione reclamando risarcimenti per gli Africani vittime della tratta atlantica degli schiavi), Repubblica democratica del Congo, Rwanda e Uganda, a un passo dal dichiararsi guerra, Camerun, dove la minoranza di lingua inglese è in rivolta e tuttavia stanno per iniziare grandi festeggiamenti per celebrare i 40 anni di presidenza di Paul Biya, in carica dal 1982. Più longevo ancora di Biya è Teodoro Nguema, presidente della Guinea Equatoriale da 43 anni, al potere dal 1979 con un colpo di Stato. Il Paese andrà al voto il 20 novembre e Nguema si è candidato per un sesto mandato: dice di aver garantito ai guineani decenni di pace, ma, come Biya in Camerun, governa con pugno di ferro e la sua famiglia considera proprio patrimonio personale il petrolio i cui proventi se ben amministrati renderebbero i circa 1,4 milioni di abitanti del paese i più ricchi del continente.