Senza Cristo non c'è giustizia. E se lo dice un ministro...
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Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ricorda il giudice Beato Rosario Livatino. Mentre la Chiesa si fa sempre più terrena, in 15 minuti secchi, un ministro della Repubblica fa comprendere, a testa alta e senza tentennamenti, che senza Cristo non c’è giustizia. Nemmeno quella umana.
In aula di giustizia, il 31 marzo scorso, si sono ascoltate parole cattoliche. Molto più cattoliche di quelle che si possono ascoltare ordinariamente nella maggior parte delle chiese. Quelle parole, proferite durante il convegno “Beati” gli operatori di giustizia – La vita e il martirio del magistrato Rosario Livatino tenutosi nel Palazzo di giustizia di Padova, sono uscite dalla bocca nientemeno di un ministro della Repubblica italiana, il ministro della giustizia Carlo Nordio il quale ha tenuto una lectio magistralis che ha saputo coniugare teologia e filosofia del diritto.
In primis Nordio ha tenuto a sottolineare che “la figura di Livatino non è la figura di un magistrato che è caduto nell’adempimento del proprio dovere. […] Qui siamo su un piano superiore. Perché Livatino al momento della morte non ha soltanto accettato il suo destino di servitore dello Stato, ma ha perdonato i suoi nemici. Questo è il salto che distingue l’adempimento del dovere dalla santità. Personalmente non credo che sarei riuscito in quel momento a fare altrettanto. […] Ammetto che sia una scelta che solo alcune persone ‘superiori’ possono adottare”.
Il cuore dell’intervento di Nordio si è incardinato su una domanda: “Dov'è la giustizia divina? È una domanda che non si poneva solo Livatino, forse non se la poneva affatto perché lui credeva nel perdono, ma ce la poniamo noi. Dov’era la giustizia divina nel momento in cui quest’uomo onesto veniva ucciso da una banda di briganti. E questa domanda non se la pone solo il laico, ma se la pone anche la persona religiosa. Perché l’intero Vecchio testamento […] è percorso da questa domanda di giustizia. È la domanda che trova la sua massima espressione drammatica nel libro di Giobbe. Giobbe, come sapete, è profeta che viene annichilito da tutta una serie di disgrazie, nonostante le quali continua a credere nel Signore, nella giustizia del Signore. E si domanda perché nonostante il suo comportamento sia stato sempre conforme ai precetti del Signore, questa valanga di ingiustizie - gli avevano tolto la moglie, i figli, i beni e alla fine anche la salute - lo avessero annichilito. E quindi alla fine Giobbe bestemmia, perché esprime la sua sfiducia nella giustizia del Signore. Negando la giustizia di Dio significa accedere ad un qualcosa che è peggio dell’ateismo. È meglio non credere in Dio piuttosto che credere in un Dio che sia ingiusto e non sappia fare giustizia”.
E così prosegue: “Però il problema rimane: perché l’ingiustizia in questo mondo? Perché Livatino si comporta bene e alla fine viene annichilito, annientato dai criminali, senza che si affermi la giustizia divina? Non tanto quella umana che magari si afferma attraverso l’irrogazione dell’ergastolo, ma la giustizia divina. […] Perché quando un fatto è fatto neanche il Papa te lo può togliere: Livatino è morto. E allora dov’è la giustizia?”.
Dopo Giobbe, Nordio cita il libro di Qoelet che “è un libro spietato perché dice che nel mondo non c’è giustizia […] e che Qoelet, lui re di Gerusalemme, ha visto sotto il sole affermarsi l’ingiustizia, ha visto il giusto punito e l’ingiusto premiato fino alla fine dei suoi giorni”. E così “la fiducia dell’uomo nella giustizia, in particolare quella divina, viene completamente a crollare”. E di nuovo il ministro torna a chiedersi: “Perché il giusto viene punito e l’ingiusto viene premiato? La risposta si trova soltanto nel Nuovo testamento. […] Il fatto stesso che lo stesso Creatore del mondo si sia immolato su questa Terra per redimere i peccati altrui allora riconcilia la massima delle ingiustizie con la massima delle espiazioni. Perché se addirittura il Creatore del mondo, espiando i peccati altrui, si mette alla pari del reo che viene punito allora significa che, per quanti Auschwitz abbiamo potuto vedere e ahimè ne abbiamo visti e ne vediamo, l’ingiustizia di questo mondo che esisteva ed esiste è stata a suo tempo riparata dal sacrificio del Creatore del mondo. Quindi esiste una forma di redenzione che va al di là di qualsiasi forma di peccato. E questa era la visione di Livatino”.
L’ingiustizia del giusto che viene assassinato allora “trova una composizione solo nelle parole di questo martire che perdona quelli che lo stanno assassinando. Le ultime sue parole sono state di perdono. E dunque la lezione che dobbiamo trarne, più che una lezione giuridica o una lezione professionale, una lezione di toga, è ovviamente una lezione etica. Ed è quella che nel momento in cui viene a mancarti la fede, perché non hai fede nelle istituzioni umane, e comincia a vacillare come in Giobbe e in Qoelet anche la fede nella divinità, quando incomincia a vacillare anche la speranza perché non sembrano che ci siano più ragioni per sperare, rimane la terza virtù che è quella che Paolo ritiene predominante. Cioè dopo la fede e la speranza, rimane la carità. Ed è questa la lezione che dobbiamo trarre dalla ispirata morte di Livatino”.
Lasciamo al lettore penetrare le profondità delle riflessioni di Nordio, il loro significato più autentico. A noi preme solo appuntare una nota a margine. Voi ve lo ricordate un ministro della giustizia che non solo non ha timore di parlare da credente vero ma che è riuscito a spiegare come la prospettiva cattolica sulla giustizia, incardinata nella croce di Cristo – misericordiosa ma anche fonte di scandalo e quindi di giudizio – sia soggiacente alla concezione della giustizia umana, fondandola, e nello stesso tempo la superi oltre ogni misura? Noi, non ne abbiamo memoria.
Sul primo punto: Nordio ha dato prova di grande coraggio uscendo così allo scoperto. Non ha temuto le prevedibili critiche di chi lo avrebbe attaccato perché da un ministro ci si aspetta solo uno scontato salmodiare laico e non certo una lezione di teologia. Non capendo, i critici, che la vera laicità non esiste senza fede, come tra poco tenteremo di spiegare brevemente. Dicevamo che Nordio è uomo coraggioso: nulla di nuovo in realtà per questo magistrato che, come lui stesso ha raccontato, era nel mirino delle Brigate Rosse tra gli anni '80 e '82.
Sul secondo punto: giustizia significa riconoscere a ciascuno il suo. Al meritevole un premio, al colpevole una condanna. Le infinite ingiustizie di questo mondo, tra cui la morte di Livatino, come potranno trovare soddisfazione? Come potranno essere punite? Questa è la domanda che Nordio pone alla coscienza di noi tutti. Potrà riuscire la giustizia umana, quella laica per intenderci, a compensare tutto questo oceano di iniquità? No. Potrà la fede e la speranza in Dio? Sì, ma solo se saranno fondate – e lo sono – nella carità che sgorga dal sacrificio di Cristo che ha pagato, lui innocente, il debito per tutti, che ha voluto risarcire ogni più piccolo danno provocato da ogni nostro peccato. A noi tocca meritarci i meriti di Cristo. Ecco che il beato Livatino diventa in questo alter Christus perché condanna i suoi carnefici con il suo perdono, perché li punisce con la carità che tutto copre. Dunque non può esistere vera giustizia umana senza riconoscere che questa sgorga dal costato aperto di Cristo.
In un momento in cui l’istituzione spirituale per eccellenza di questo mondo, la Chiesa cattolica, si fa sempre più terrena parlando di benedizione alle coppie gay, di abolizione di celibato ecclesiastico, di accesso alle donne al sacerdozio, di immigrati, ambiente e poveri, ecco che il rappresentante di un’istituzione laica, laicissima, come il Ministero della Giustizia volge gli occhi al Cielo e in 15 minuti secchi fa comprendere, a testa alta e senza tentennamenti, che senza Cristo non c’è giustizia. Nemmeno quella umana.