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FEMMINICIDIO

Se tutto è "cosa" la violenza diventa legge

Nel dibattito sul femminicidio si dimentica che il cuore del problema sta nella "cosificazione", nel rapporto ridotto a possesso. E la violenza sulle donne ha la stessa radice dell'aborto, dell'eutanasia, della qualità della vita.

Editoriali 16_05_2013
Femminicidio

Da donna ascolto la notizia dell’ennesimo femminicidio, dell’ennesimo atto di violenza compiuto da un marito, da un fidanzato, da un convivente nei confronti della donna che diceva, che dice, di amare. Un ex che non si rassegna, un “partner in carica” attanagliato dalla gelosia: qualunque sia il legame che lega questi “uomini che odiano le donne” ? per dirla alla Sting Larsson  ? alle donne uccise, mi trovo di fronte ad un crimine che non posso non guardare con gli occhi della donna.

Anche nella mia attività pastorale quotidiana non è così infrequente ascoltare racconti di donne maltrattate, minacciate, picchiate, dai loro uomini. Una rabbia sorda sento crescere in me ogni volta, un senso di giustizia violata, di dignità graffiata, di perimetro sacro violato. Violato nella forma più bestiale proprio perché è fatto da chi dovrebbe invece rispettare, amare, proteggere. Sì, perché se i dati Istat danno in calo i numeri delle vittime femminili (192 nel 2003; 172 nel 2009; 156 nel 2010 per arrivare alle 120 del 2012), è vero che i cosiddetti “omicidi di prossimità”, i delitti commessi da mariti, conviventi e simili, per intenderci, costituiscono più del 70% del totale di questi delitti.

Va detto che il fenomeno è estremamente complesso per ridurlo alle poche battute di un articolo, ma al cuore del problema, a mio avviso, vi è una “cosificazione” della persona che si manifesta in maniera drammatica nella fragilità. Voglio dire che una cultura dimentica dell’impronta trinitaria della persona, dimentica che ogni essere umano è costitutivamente per-l’altro, finisce per ridurre l’uomo, la donna, ad un oggetto da possedere. L’immagine trinitaria della persona è ciò che tiene insieme identità, dono, differenza, spazio, alterità. La persona come un essere che si dona totalmente, accogliendo totalmente, restando se stessa. L’idea dell’uomo come individuo, che è quella vincente nella società occidentale, genera invece che relazioni autentiche, relazioni di fusione e di possesso.

La relazione di fusione, dove non c’è più l’io ma un noi senza distinzioni, genera alla lunga sentimenti di violenza, di rancore, di risentimento, nella misura in cui l’altro è percepito, a torto o a ragione, come un nemico laddove provi a costituirsi uno spazio proprio. A dissociarsi, cioè, da un legame malato dove il perimetro sacro della propria coscienza e libertà è invaso. La frustrazione del distacco, dell’Oggetto perduto, del taglio di una parte di sé, fa scatenare il senso di perdita assoluta che genera la reazione omicida.

Vi è poi un altro aspetto che potrei sintetizzare con l’espressione tanto cara ai giovani: quel “mi fai star bene”, che è un modo apparentemente romantico per dire: mi servi, la tua presenza è strumentale al mio benessere. Come una buona birra che distende a fine giornata sul divano davanti alla TV. L’altro è funzionale ai miei bisogni, non una risposta gratuita al mio desiderio, l’altro è entrato nella categoria delle cose. E le cose, si sa, si posseggono. E si difendono se qualcuno ce le vuole rubare.

In questa dinamica dove fallisce l’identità personale e la relazione, ne fanno le spese i più fragili. Certamente nella relazione di coppia la donna, almeno per costituzione fisica, è più fragile, esposta più dell’uomo alla violenza fisica. Questa dinamica del non saper accettare qualcuno che si frapponga fra me e i miei interessi, fra me e il mio ideale di vita, però, non ha nel femminicidio l’unico esito tragico.

Nemici di un io ipertrofico, nemici quindi da eliminare, sono anche il bambino che fiorisce nel seno della madre, il malato terminale o cronico, l’handicappato - che chiede attenzione, tempo, soldi - fino il proprio sé sessualmente segnato come accade nella teoria di genere. Da educatrice non posso tacere anche i tanti orfani, seppur con genitori in vita, alla ricerca di una attenzione elementare da parte di genitori troppo indaffarati nella propria auto-realizzazione.

L’altro ridotto a risposta ai propri bisogni emotivi, costituisce l’humus generativo di una cultura del femminicidio, dell’aborto, dell’eutanasia, della qualità della vita al posto del diritto a vivere, della sessualità vissuta come arbitrio e capriccio. Da donna, di questo gioco al massacro, non posso che ammettere che noi donne ne siamo vittime, ma anche carnefici; oggetto e soggetto, nella misura in cui ci prestiamo alla cultura della cosificazione della persona, all’idea di una libertà fautrice di valori, all’idea dell’amore come impulso emotivo libero da ogni dovere e responsabilità. Alle donne vittime di questo crimine, credo che dobbiamo, con tutta onestà, almeno l’onere, uomini o donne che siamo, di riflettere sulle nostre responsabilità nei confronti di questa cultura della merce, dove tutto ha un prezzo ma niente ha valore, per incidere operativamente con uno stile di vita che porti l’impronta Dei Tre, dove ciascuno sia spazio accogliente ma libero per l’altro.