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Retorica e sprechi

Se il made in Italy diventa pretesto per un poltronificio

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L’esecutivo ha approvato un decreto che istituisce una fondazione per il made in Italy, in aggiunta al nuovo liceo avente lo stesso scopo. Una scelta infelice che accresce la burocratizzazione del Paese, creando tante nuove poltrone.

Editoriali 06_08_2024
Adolfo Urso, ministro del made in Italy (ImagoEconomica)

La storia infinita della “valorizzazione” del made in Italy continua a regalarci pagine a dir poco sorprendenti. La vaghezza del concetto di made in Italy consente, infatti, di volta in volta, di mascherare da interventi di tutela nazionale quelle che in realtà sono operazioni di puro potere o comunque di discutibile utilità sul piano dell’interesse pubblico. In questo caso a potenziare il quoziente opportunistico delle azioni si aggiunge il colore politico di chi governa il Paese coltivando una certa ossessione nazionalista anche in settori nei quali sarebbe più costruttivo badare alla crescita integrale della persona anziché alla difesa (anacronistica) dell’italianità fine a sé stessa.

È di questi giorni l’approvazione di un decreto a firma del ministro delle Imprese e del made in Italy, di concerto con il ministro dell’Istruzione e del merito e con il ministro dell’economia e delle finanze, che istituisce la “Fondazione imprese e competenze per il made in Italy”. L’iniziativa non è isolata ma si ricollega a un’altra idea infelice di questo esecutivo, quella di istituire un liceo del made in Italy, fortemente voluto dalla stessa presidente del Consiglio (Giorgia Meloni ne annunciò con enfasi l’istituzione nell’aprile 2023 intervenendo al Vinitaly), ma evidentemente con poco appeal sul mercato dell’offerta formativa, visto che è un ibrido tra il liceo delle scienze umane e quello economico. D’altronde i dati lo documentano: pochissimi studenti, classi semivuote e il Ministero dell’Istruzione costretto a ridurre da 27 a 17 il numero minimo di alunni per classe, al fine di evitare un flop senza precedenti. Senza contare che i pochissimi iscritti (poco più di 500 in prima classe) non sanno ancora cosa studieranno il terzo anno. Parafrasando una nota canzone italiana, lo scopriranno solo vivendo. Facile prevedere che alcuni studenti del liceo del made in Italy possano cambiare strada e abbandonare un indirizzo di studi organizzato in fretta e furia senza un adeguato percorso preparatorio.

La cosa grave, però, è che ora al danno si aggiunge la beffa, che si chiama appunto “Fondazione imprese e competenze per il made in Italy”. Tra i compiti del nuovo organismo compare proprio il sostegno al liceo del made in Italy. È quanto prevede la legge 27 dicembre 2023, n. 206, recante “Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy” e, in particolare, l’articolo 19 che istituisce e disciplina quella fondazione, alla quale affida il compito di promuovere il raccordo tra le imprese che rappresentano l’eccellenza del made in Italy, comprese quelle titolari di marchi storici, e i licei del made in Italy, al fine di diffondere la cultura d’impresa del made in Italy tra gli studenti e favorire iniziative mirate a un rapido inserimento degli stessi nel mondo del lavoro.

Molti italiani hanno la memoria corta, altrimenti ricorderebbero che già il secondo governo Berlusconi, grazie a una bella intuizione dell’allora ministro delle Attività produttive, Claudio Scajola, con decreto n.273/2005, convertito in legge n.51 del 2006, istituì la “Fondazione Valore Italia”, ente pubblico per la realizzazione di una “Esposizione permanente del design italiano e del made in Italy”, con l'obiettivo di essere il laboratorio progettuale sull’economia della cultura, della creatività e del made in Italy. La Fondazione, a seguito di un accordo con l’ente Eur, disponeva di ampi spazi per ospitare esposizioni, convegni e attività di formazione per meglio rappresentare l'eccellenza italiana nel mondo. L’Esposizione, infatti, aveva come finalità la valorizzazione dello stile italiano, nonché la sua promozione internazionale. Quella Fondazione, nei suoi primi anni di vita, contribuì allo sviluppo di progetti qualificanti sul fronte della valorizzazione delle eccellenze italiane. Nel 2009, però, quando iniziarono i primi scricchiolii nell’ultimo governo Berlusconi, con le tensioni tra il Cavaliere e l’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini, la Fondazione smise di funzionare perché alcuni suoi vertici pretesero di trasformarla in una sezione di Futuro e Libertà, neonata formazione politica dei finiani, che fallì miseramente raccogliendo percentuali da prefisso telefonico alle elezioni politiche del 2013.

Sulla Fondazione Valore Italia si abbatté la scure della spending review del governo Monti, che la soppresse ai sensi dell’articolo 12 del decreto n.95 del 2012, poi convertito in legge. In altri termini, quell’esecutivo tecnico ritenne che il made in Italy non fosse meritevole di una vera e propria Fondazione e si potesse ugualmente valorizzare in altro modo. Anche alla luce dell’occupazione “finiana” dell’ultimo periodo la soluzione fu probabilmente quella corretta.

A distanza di quasi vent’anni la destra prova a rimettere le mani sul business del made in Italy e lo fa istituendo una Fondazione che, tra le varie competenze, ha anche quella di curare e gestire l’Esposizione permanente già oggetto delle attività della defunta Fondazione Valore Italia. Questa volta, però, si tratta di un vero e proprio “poltronificio”. La Fondazione Imprese e competenze per il made in Italy avrà un presidente, un direttore generale, un consiglio d’amministrazione e un collegio dei revisori, come successe per la Fondazione Valore Italia, ma avrà anche un comitato tecnico (i famosi “esperti” – fino a 15 in questo caso – scelti, com’è prevedibile, con i ben noti criteri “meritocratici”) e maglie ancora più larghe nelle assunzioni di personale a tempo determinato e indeterminato per lo svolgimento delle attività della Fondazione, perfino con la possibilità di istituire sedi locali.

Ancora una volta, quindi, il governo Meloni sceglie la strada della burocratizzazione, cioè della moltiplicazione di organismi che renderanno ancora più farraginoso il meccanismo di valorizzazione delle eccellenze italiane, con l’impegno di risorse che potrebbero invece essere destinate in modo più mirato alle imprese, anziché passare attraverso le clientele politiche. Un fisco più equo e una burocrazia meno asfissiante è ciò che ci vuole per dare ossigeno a chi produce, investe, lavora. Tutto il resto non fa altro che accrescere la distanza tra la politica politicante e i bisogni reali dell’economia e della società.