Scuola in crisi? Specchio di un’Italia che non fa più figli
Il rapporto annuale dell’Ocse sulla scuola italiana ha presentato dati non confortanti, che peraltro non sono una novità. La nostra scuola soffre di una crisi strutturale, che riflette quella di un’intera società, in cui non si fanno più figli, le famiglie si sgretolano, non si danno ragioni per cui valga la pena vivere e sacrificarsi. I valori cristiani, un tempo collante sociale, sono ignorati. Eppure, nel nostro Paese ci sono ancora belle realtà, da cui si può ripartire.
Come ampiamente riportato dalle agenzie di stampa e già spiegato da diversi commentatori, i dati sulla scuola italiana pubblicati dal rapporto annuale dell’Ocse, Education at a Glance 2019, non sono molto confortanti.
Riprendiamo in merito l’Ansa: «Oltre un milione di studenti in meno e circa metà degli attuali docenti, che andranno in pensione. Lo dice il Rapporto Ocse. Lo studio evidenzia che l'Italia ha la quota maggiore di docenti ultra 50enni (59%) e dovrà sostituirne circa la metà entro i prossimi dieci anni ed ha la quota più bassa di insegnanti di età tra i 25 e i 34 anni nei Paesi dell'OCSE. Il 68% degli insegnanti ha dichiarato che migliorare i salari dei docenti dovrebbe essere una priorità. L'Italia registra la terza quota più elevata di giovani che non lavora, non studia e non frequenta un corso di formazione (neet) tra i Paesi dell'OCSE: il 26% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni è neet, rispetto alla media OCSE del 14%. L'Italia e la Colombia sono gli unici due Paesi dell'OCSE con tassi superiori al 10% per le due categorie (inattivi e disoccupati) tra i 18-24enni».
Si tratta, in realtà, solo di una parte dei problemi che affliggono il nostro sistema di istruzione; altre questioni, altrettanto gravi, pesano sul futuro della scuola (ne abbiamo già trattato recentemente). Tuttavia vale forse la pena tentare alcune sottolineature - senza pretendere di esaurire un tema così complesso - per offrire ulteriori chiavi di lettura.
La scuola italiana soffre di una crisi strutturale dalla quale non riesce a venire fuori. Usando un’immagine di natura sanitaria, si potrebbe dire che il paziente è molto grave, quasi agonizzante, e ogni nuovo ministro, improvvisandosi specialista (negli ultimi venti anni ne sono cambiati ben dieci!), lo riporta “in sala operatoria” e interviene a modo suo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti…
Quello che non si vuole capire è che la crisi della scuola altro non è che lo specchio della crisi di un’intera società, e che la cura probabilmente deve riguardare aspetti che non hanno a che fare in modo diretto con l’istruzione.
Volendo usare una definizione sintetica, possiamo dire che l’Italia soffre di un deficit di speranza. Non si fanno più figli, le famiglie si sgretolano, non si capisce più per quale motivo ci si dovrebbe impegnare e sacrificare, la tensione sociale è alle stelle… I valori cristiani (definizione considerata oggi terribile e divisiva) che facevano da collante per la vita personale e collettiva del nostro popolo sono quasi scomparsi e al loro posto ci sono parole d’ordine che poco o nulla hanno a che fare con il bene vero della persona.
Per questo, non si risolverà il problema dell’inverno demografico in atto (che mette in crisi anche la scuola) semplicemente con delle politiche economiche a favore delle famiglie, per quanto queste siano comunque necessarie, dato che gli italiani non fanno più figli perché non sanno più perché vale la pena vivere. Nel passato, carestie, povertà, guerre, sconvolgimenti sociali, eccetera, non hanno mai bloccato l’incremento demografico…
Non si avrà un vero ricambio generazionale dei docenti semplicemente aumentando le retribuzioni, per quanto questo sia comunque doveroso, dato che i giovani non ambiscono più alla professione docente (si vedano al riguardo le statistiche di Alma Laurea e dell’Anvur) soprattutto perché è andata perduta la coscienza della bellezza della sfida educativa e la scuola statale è ridotta a un moloch di burocrazia asfissiante davvero poco attraente.
Non si risolverà il problema dei neet - così come auspica il neo ministro Lorenzo Fioramonti in un’intervista - collegando maggiormente la scuola al mondo del lavoro (per quanto questo possa essere comunque interessante) perché questi giovani neet, che non lavorano e non studiano, al «non» studio e lavoro tendono ad associare anche altri «non» sul versante delle scelte di autonomia, di formazione di una famiglia, di partecipazione alla vita sociale e politica (si leggano al riguardo i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo) non riconoscendo valide ragioni per cui impegnarsi.
Sono solo alcuni spunti di riflessione, che meriterebbero ben altro approfondimento, per dire che non ne verremo fuori con dei correttivi parziali e settoriali, ma solo con un deciso cambio di rotta complessivo, cioè rimettendo al centro ciò per cui vale davvero la pena vivere. Non si tratta di un’ennesima parola d’ordine astratta, ma di dare visibilità, spazio e ossigeno a quelle realtà sociali piene di speranza che documentano una ricchezza di esperienza umana, educativa, lavorativa, relazionale, facendole diventare proposta ed esperienza per tutti.
Nel nostro Paese ci sono ancora tante realtà così (scuole paritarie e parentali, opere sociali e multiformi aggregazioni “dal basso”), ma rischiano di scomparire a causa dell’indifferenza (se non dell’ostilità…) di scelte politiche miopi o di risultare invisibili perché volutamente ignorate da chi detiene il potere della comunicazione.
Il sostegno e la diffusione di tutto ciò che di bene, di bello e di vero esiste ancora nel nostro popolo è un’urgenza ormai improcrastinabile. La dottrina sociale della Chiesa le chiama autonomia e sussidiarietà. Ognuno, in questo, ha un compito e una responsabilità personale, così come fondamentali sono e saranno le scelte politiche di chi è chiamato a governare il Paese. La situazione non è rosea, ma non perdiamo la speranza.