Scosse in vista: democrazia sindacale e scismi leghisti
Matteo Renzi, stanco della vecchia guardia comunista del Pd e dell'opposizione dei sindacati alle riforme, ha deciso di implementare sul serio quella democrazia sindacale e interna ai partiti che era prevista dalla Costituzione. A destra, intanto, la Lega nel Veneto si spacca. Naturale conseguenza della svolta nazionalista impressa da Matteo Salvini.
Nei prossimi giorni saranno da seguire due distinti episodi del rimescolamento dei rapporti di forza che è in atto nel sistema politico italiano: uno relativo all’area di centrosinistra e l’altro all’area di centrodestra.
Per dare un colpo a quel che resta dell’ormai fossile ordine costituito dell’ ”arco costituzionale” talvolta non c’è niente di meglio che minacciare di attuare la Costituzione. Ed è proprio questo che sta facendo Matteo Renzi. Per “arco costituzionale” – ricordiamo soprattutto per i più giovani - s’intendeva nella Prima Repubblica l’insieme dei partiti rappresentati nell’Assemblea Costituente nonché i loro diretti eredi politici. Insieme al ruolo para-istituzionale attribuito ai sindacati Cgil/Cisl/Uil, l’ “arco costituzionale” era un modo per riconoscere in certa misura un ruolo di governo al Partito comunista benché nella logica della guerra fredda dovesse restare comunque all’opposizione.
La Carta venerata dal famoso “arco” non è infatti la Costituzione per intero bensì alcune sue parti, se necessario anche interpretate ad hoc (Si veda ad esempio il caso della libertà di istituire e gestire scuole non statali “senza oneri per lo Stato”). Altre parti invece erano escluse, e sono rimaste fino ad oggi inapplicate. Tra le altre gli articoli 39 e 49, che fissano norme a garanzia dell’effettiva rappresentatività dei sindacati nonché della democrazia interna dei partiti. Quel che si dice una minaccia mortale sia per gli uni che per gli altri.
Insofferente del peso della vecchia guardia comunista nel Partito Democratico e deciso a tagliare le gambe all’iniziativa politica del segretario della Fiom, Landini, Matteo Renzi ha adesso fatto sapere che con apposite leggi intende dare pieno vigore a quei due articoli. In forza degli accordi non ufficiali ma granitici tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, che garantirono la pace in Italia nella delicata epoca della “guerra fredda”, i sindacati cosiddetti confederali (Cgil, Cisl e Uil) sono rappresentativi, diciamo così, per principio. Essendo la Cgil, capofila della coalizione, strettamente legata al Pci, negli anni della “guerra fredda” questo artificio consentì appunto ai comunisti italiani di partecipare di fatto al governo del Paese pur essendo ufficialmente all’opposizione. Venuta meno la necessità storica che l’aveva giustificato, tale artificio è però divenuto sempre più il motore della trasformazione di Cgil/Cisl/Uil in apparati neo-corporativi che tutelano pochi settori del mondo del lavoro a spese di tutto il resto dell’economia, essendo inoltre legati alla pubblica amministrazione da un vario intreccio di interessi. Resta da vedere se Renzi riuscirà nell’impresa, ma se ci dovesse riuscire ciò non potrà che essere ascritto a suo merito. L’uomo è forte e motivato nella diagnosi dei mali della democrazia italiana, ma poi il problema è ohimè quello solito: lo statalismo delle sue cure, che a breve termine possono alleviarne i sintomi ma a lungo termine aggravano la malattia.
Per capire poi che cosa sta accadendo nell’area di centrodestra, e in particolare nella sua componente leghista, occorre tener conto di due cose. In primo luogo la disinvolta virata di Matteo Salvini verso un neo-nazionalismo ispirato al Front National francese di Marine Le Pen ha lasciato scoperto proprio il nocciolo duro della Lega Nord, federalista, se non anche semplicemente localista, nato e cresciuto sull’idea della rivendicazione dell’autonomia dell’Alta Italia produttiva dalla Penisola assistita e consumatrice di provvidenze erariali. Nella realtà poi l’articolazione fra queste due Italie è più complessa: la prima si estende qua e là anche verso sud, e la seconda a sua volta qua e là raggiunge anche la valle padana se non pure le Alpi. Ad ogni modo, nei limiti di una forte semplificazione, lo schema delle due Italie funziona. E per chi vi si riconosce l’alleanza tra la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia è un po’ come il diavolo e l’acqua santa. Ciò più che mai nel Nordest dove, sotto la spinta dell’alta pressione fiscale e della grande burocratizzazione dello Stato italiano, è in atto un vero e proprio trasloco in massa dell’apparato industriale verso la Slovenia, l’Ungheria e la Croazia, Paesi a poche ore di camion, membri anch’essi dell’Unione Europea, dove però la pressione fiscale è molto più bassa e dove la pubblica amministrazione fa di tutto per agevolare e velocizzare tale trasloco.
In secondo luogo non va dimenticato che dentro la Lega Nord c’è un’antica e mai sopita ruggine tra Lombardia e Veneto. La Lega nacque come Liga Veneta; è un’invenzione veneta che poi Bossi fece sua spostandone rudemente il centro in Lombardia: un cambio di baricentro segnato anche da emarginazioni ed espulsioni dei fondatori della Liga. L’iniziativa di Flavio Tosi ridà fiamma a una brace che covava da tempo sotto la cenere. Quindi la partita che in vista delle elezioni regionali si sta giocando nel Veneto fra Tosi e Zaia, uomo strettamente legato a Salvini, è molto aperta e potrebbe riservare notevoli sorprese. Tanto più che, come ormai di regola avviene in prossimità delle elezioni, quasi fossero ben regolati congegni a orologeria cominciano qua e là a esplodere clamorose inchieste giudiziarie.