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VIRUS E VACCINI

Scomparsa la Polio in Africa, ma è proprio così?

Il 25 agosto l’Oms ha dichiarato ufficialmente che è stata debellata la poliomielite in Africa. La stessa Oms che oggi è ai minimi storici per popolarità e credibilità, in seguito al modo in cui ha gestito l’emergenza COVID-19. Infatti il rischio che la malattia si ripresenti è tra i più elevati. Ed in realtà non si può neanche dire che la malattia sia realmente scomparsa...

Attualità 14_09_2020

Il 25 agosto l’Oms ha dichiarato ufficialmente che è stata debellata la poliomielite in Africa. Il direttore generale dell’Oms Tedros Ghebreyesus, nel congratularsi con tutti coloro che hanno contribuito a raggiungere questo traguardo, ha sottolineato l’importanza straordinaria dell’evento, una pietra miliare perché quello della polio è il secondo virus sradicato dal continente. Il primo è stato quello del vaiolo 40 anni fa.

 “È una grande giornata per i miei fratelli e le mie sorelle africane – ha twittato Ghebreyesus – questo è uno dei più grandi risultati raggiunti in campo sanitario che dimostra come con la scienza e la solidarietà possiamo sconfiggere i virus e salvare vite umane”.

L’enfasi dei commenti del direttore generale non poteva essere più inopportuna, specie nel momento in cui la popolarità e la credibilità dell’Oms sono ai minimi storici in seguito al modo in cui ha gestito l’emergenza COVID-19. È vero infatti che da più di tre anni in Africa non si registrano casi di poliovirus selvaggio di tipo 1, l’unica delle tre varianti del virus ancora attiva. L’ultimo si è verificato nel 2016 in Nigeria. Ma l’assenza di casi non è affatto un risultato definitivo, non in Africa dove il rischio che la malattia si ripresenti è tra i più elevati. In realtà non si può neanche dire che la malattia sia realmente scomparsa dal momento che quest’anno, anche se da vaccino e non da virus selvaggio, ne sono stati segnalati 172 casi in 14 stati.

Se proprio voleva celebrare un successo, per guadagnare consensi nell’opinione pubblica internazionale, l’Oms avrebbe fatto meglio a festeggiare il 25 giugno la fine dell’epidemia di Ebola scoppiata nell’agosto del 2018 nell’est della Repubblica democratica del Congo che si è conclusa con un numero relativamente contenuto di morti, 2.287, e senza interessare come si era tanto temuto il resto del paese e gli stati confinanti (quella del 2014-2016 originatasi in Guinea Conakry, Africa occidentale, ha fatto 11.325 vittime in dieci paesi). Determinante è stato il fatto di disporre di un vaccino che ha consentito di immunizzare il personale sanitario e molte delle persone entrate in contatto con gli ammalati. Anche un’altra epidemia di Ebola, iniziata a maggio del 2018 nella provincia di Equatore, nel nord ovest del paese, si è risolta in meno di tre mesi con 54 casi e 33 morti. Invece è tuttora in corso, e si lotta per contenerla, quella per cui è scattato l’allarme il 1° giugno del 2020 nella stessa provincia, nella capitale Mdandaka, estesasi poi a 11 delle 17 zone sanitarie della provincia: finora sono stati registrati 100 casi e 43 decessi.

Nello stesso periodo il Congo faceva i conti con altre malattie infettive. Nel 2019 sono stati denunciati 16,5 milioni di casi di malaria, 30.000 di colera, 310.000 di morbillo, di cui sono morte 7.000 persone, quasi tutti bambini: tutte emergenze per affrontare le quali è stato essenziale l’intervento della comunità internazionale, tramite l’Oms e organizzazioni non governative come Medici senza frontiere, che ha messo a disposizione personale, materiale sanitario, vaccini e fondi.

La stessa situazione si verifica in tutto il continente: emergenze multiple, ricorrenti, corse contro il tempo da parte dell’Oms e di altri organismi internazionali per rimediare a enormi carenze dei sistemi sanitari nazionali, mancanza di collaborazione da parte di governi e popolazione, se non addirittura aperta ostilità, e in più, spesso, in situazioni rese critiche e quasi insostenibili dalla carenza o totale assenza di infrastrutture e dalla presenza di gruppi armati e di organizzazioni criminali che rendono pericoloso e a tratti impossibile operare.

Tornando alla poliomielite, sono questi i fattori a causa dei quali i risultati conseguiti sono incerti, fragili, suscettibili di essere spazzati via da un momento all’altro. Nel 1996, grazie anche all’impegno di Nelson Mandela e del Rotary International, l’Africa ha aderito alla campagna mondiale di contrasto alla polio lanciata dall’Unicef e dall’Oms nel 1988. Quell’anno la malattia aveva colpito paralizzandoli più di 75.000 bambini africani. Il virus era presente in tutto il continente. Negli anni successivi i casi sono diminuiti drasticamente e in molti stati sono scomparsi. Ma nel 2000, ad esempio, quando sembrava che la battaglia contro la polio in Africa fosse praticamente vinta, in Nigeria alcuni stati settentrionali a maggioranza islamica hanno sospeso le vaccinazioni sotto l’influenza degli integralisti secondo i quali al posto del vaccino venivano somministrate ai bambini sostanze che li rendevano sterili. In meno di un anno la polio è ricomparsa in molti paesi africani, prima quelli più vicini alla Nigeria e poi altri più distanti.

Ci sono voluti anni per rimediare ai danni causati dal focolaio nigeriano non solo in Africa. L’irregolarità con cui vengono eseguite le vaccinazioni in molte regioni del continente a causa dei fattori descritti ha fatto il resto. Più sono i bambini che non vengono vaccinati e più infatti aumenta la probabilità che un bambino vaccinato trasmetta ad altri non immunizzati il virus indebolito. Di solito il contagio non ha conseguenze, anzi provoca una immunizzazione “passiva”. Però, se il virus indebolito derivato dal vaccino continua a circolare per molto tempo, in alcuni casi fortunatamente rari può subire una mutazione genetica che lo trasforma in un vaccino in grado di provocare la paralisi.

Per questo desta allarme l’individuazione di 13 casi di poliomielite in Sudan. Il ministero della sanità sudanese li ha notificati all’Oms il 9 agosto, ma i primi due casi risalgono al 7 marzo e al 1° aprile. Si tratta di due bambini di 48 e 36 mesi ricoverati con un inizio di paralisi. Accresce la preoccupazione il fatto che le indagini effettuate indicano che i virus responsabili dei contagi in Sudan sono geneticamente riconducibili a un ceppo individuato per la prima volta nell’ottobre del 2019 attualmente in circolazione in Ciad e in Camerun. Si ritiene pertanto che il virus sia stato introdotto in Sudan dal vicino Ciad.