Scimmie, uomini e dèi
Secondo la visione materialistica di Yuval Noah Harari, narrazioni e miti condivisi hanno permesso all’uomo di dominare la Terra. Ma ora, ritiene lo storico, con l’evoluzione esponenziale delle biotecnologie e dell’informatica saranno necessarie “nuove” narrazioni e tra queste una tecno-religione del XXI secolo. Una prospettiva agghiacciante.
Il famoso storico, filosofo, accademico e saggista israeliano, Yuval Noah Harari (1976-), considera scontata la teoria evoluzionistica e la sua concezione dell’uomo è completamente materialistica e priva di qualsiasi riferimento di tipo metafisico. Egli afferma che i nostri antichi predecessori erano comuni scimmie che solo grazie alla loro capacità di collaborare in modo flessibile, aggregandosi in grandi gruppi, divennero i dominatori del pianeta. Si potrebbe obiettare che anche gli insetti sociali hanno questa capacità, tuttavia la loro collaborazione è determinata geneticamente e non è flessibile, per esempio un’ape operaia non può svolgere compiti diversi da quello che le è proprio.
Nel mondo dei mammiferi, gli scimpanzé possono collaborare in gruppi di 100 o al massimo 200 individui: tale collaborazione, tuttavia, presuppone una conoscenza diretta tra di loro. Che cos’è dunque a distinguere i Sapiens dagli altri animali? Secondo Harari, tutti i grandi successi dell’umanità dipendono dalla capacità di collaborare in modo flessibile. Che cosa rende possibile tutto ciò? La risposta è l’immaginazione e in particolare la capacità di inventare storie e miti condivisi. Quando milioni di persone credono nella stessa storia, obbediscono alle medesime leggi e condividono gli stessi valori anche perfetti sconosciuti possono cooperare in modo efficace. Alla base di qualsiasi forma di collaborazione su vasta scala si trova sempre una storia immaginaria. Tutto è “narrazione”: le religioni, il denaro, le nazioni, e gli stessi “diritti umani”.
Nella sfera legale e politica, l’esempio più significativo è costituito proprio dai diritti umani: un mito che non ha alcun senso a livello biologico, perché non sono iscritti nel nostro codice genetico; sono una storia inventata, e neppure molto tempo fa, insieme al diritto alla vita, alla libertà e così via. Ciò significa che, sebbene siano stati importanti in un determinato contesto storico, potrebbero diventare del tutto insignificanti in futuro. Coerentemente con la sua visione materialistica, Harari nega quindi l’esistenza dei diritti umani fondati sulla dignità dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Nella sua prospettiva, i miti e le narrazioni, ancorché irreali e fittizi, sono tuttavia strumenti potenti, che consentono la cooperazione umana.
Anche il denaro appartiene al mondo dei miti, anzi è la finzione in cui tutti credono e proprio per questo motivo - anche se si tratta di pezzi di carta privi di valore intrinseco - funziona e ha consentito agli uomini di sviluppare un sofisticato sistema finanziario e di relazioni commerciali. In effetti, gran parte della storia umana ruota attorno a questo quesito: come far sì che milioni di persone credano nella stessa finzione, nel dollaro piuttosto che nel bitcoin, in un Dio e non in un altro?
La maggior parte dei conflitti umani - si pensi all’annoso conflitto tra israeliani e palestinesi - non riguardano il semplice dominio di un territorio o la penuria di cibo, ma si manifestano allorché i gruppi umani non condividono e non accettano la medesima storia.
A differenza degli animali, Harari ritiene che gli umani dominino il mondo perché vivono in una realtà duale, non solo oggettiva, quindi, ma anche e soprattutto frutto di una narrazione. Oggi, infatti, le decisioni di realtà fittizie come le banche, le nazioni, l’Unione Europea o gli Stati Uniti d’America determinano il destino di tutti gli ecosistemi. Il dominio degli umani non dipende dalla genialità dei singoli individui: la tecnologia si sviluppa con la cooperazione e osservando la storia degli ultimi 70 mila anni è evidente la complessa trama di relazioni tra tecnologie, religioni, ideologie e miti. A tal proposito, pensiamo alle rivoluzioni industriali del XIX secolo, allorché il genere umano iniziò a padroneggiare nuove tecnologie come il vapore, l’elettricità, la radio, ecc. L’effetto immediato fu il caos sociale e politico, che portò all’emersione di una nuova classe sociale - il proletariato urbano - che le classi dirigenti non sapevano come gestire. Una delle prime reazioni fu un’ondata di fondamentalismo religioso, inteso come il comprensibile tentativo di tornare alle fondamenta ossia alla sicurezza delle vecchie narrazioni. Ciò si manifestò in Europa con il magistero cattolico dei pontefici Pio IX (1846-1878) e Leone XIII (1878-1903), in Medio Oriente ci fu un’ondata di fondamentalismo islamico - il movimento del Mahdi - e in India il revival Indù. Secondo Harari, le risposte di tipo religioso fallirono perché in nessun testo sacro si possono trovare le soluzioni ai problemi posti dalla rivoluzione industriale e dalle nuove tecnologie. A questo proposito, e detto per inciso, i grandi santi sociali del XIX secolo che si impegnarono per migliorare le condizioni di vita degli operai avrebbero molto da obiettare, ma tant’è.
Proprio in tale contesto, si affermò il socialismo che in pochi decenni divenne il più influente movimento ideologico, ma si potrebbe anche dire lato sensu “religioso”. Karl Marx (1818-1883), Friedrich Engels (1820-1895), Vladimir Il’ič Lenin (1870-1924) e Lev Trockij (1879-1940) cercarono le risposte studiando le nuove tecnologie e la realtà della società industriale e svilupparono una nuova narrazione. Il comunismo fu la prima tecno-religione, una narrazione che promette al popolo le stesse ricompense del cristianesimo e dell’ebraismo: pace, prosperità e il paradiso, già qui sulla Terra. Le grandi divisioni e diatribe su questioni metafisiche che avevano diviso l’umanità, dopo Marx hanno lasciato il passo a questioni di ordine materiale e immanente, come la tecnologia, l’economia e i metodi di produzione.
Per Harari, tutto ciò è molto importante perché oggi siamo all’inizio di una nuova rivoluzione industriale, la Quarta. Grazie alle biotecnologie e agli algoritmi informatici ci stiamo impadronendo di nuovi poteri e questa rivoluzione avrà un’influenza maggiore e più radicale delle tre precedenti. I prodotti che stiamo imparando a progettare e produrre saranno corpi, cervelli e menti per noi stessi ma anche per entità non organiche. Dopo 4 miliardi di anni la vita si diffonderà nel mondo inorganico e tutto ciò creerà il caos nei sistemi sociopolitici e nella narrazione che ci permette di governare il mondo.
Le nuove tecnologie portano con sé grandi rischi e grandi opportunità. La bioingegneria senza dubbio consentirà di curare molte malattie ma, al tempo stesso, potrebbe ampliare enormemente il gap tra ricchi e poveri: le differenze tra le classi sociali non sarebbero più solamente di ordine politico o economico, ma addirittura a livello biologico. Potremmo assistere al sorgere di una nuova classe sociale costituita da persone che non avranno più alcun valore economico, se si avvererà la profezia che vede, nell’arco di trent’anni, fino al 50% di lavori svolti dall’intelligenza artificiale: dalla guida di un taxi, alla diagnosi delle malattie, all’insegnamento. Il XXI secolo rischia di essere caratterizzato da una diseguaglianza sociale senza precedenti e l’enorme massa di persone ormai professionalmente obsolete potrà trovare rifugio solo nella realtà virtuale, in una sorta di nirvana informatico, col sostegno economico dell’Universal Basic Income, il reddito universale di cittadinanza. Specularmente, le disuguaglianze “di genere” si attenueranno fino a scomparire, grazie alla fluidità permessa dalle biotecnologie.
Contestualmente assisteremo all’emergere di ideologie completamente nuove, nuove narrazioni che sostituiranno il liberalismo e il socialismo ormai inadeguati per affrontare i problemi del XXI secolo. Probabilmente la religione del futuro non nascerà in Medio Oriente, ma in luoghi come la Silicon Valley, e sarà funzionale all’avanzata dell’ingegneria genetica, dell’intelligenza artificiale e dell’applicazione onnipervasiva degli algoritmi. La nuova tecno-religione prometterà non solo il paradiso in terra, ma anche la vita eterna: sì, perché la morte è solo un problema tecnico e per ogni problema tecnico esiste una soluzione tecnica. Forse non la conosciamo ancora, ma con il tempo e adeguate risorse finanziarie la troveremo.
La tecnologia da sola non basta ed è necessaria una buona narrazione: la tecnologia può cambiare il mondo, ma la bontà del risultato dipende dalla narrazione che l’accompagna. Nel corso del XXI secolo assisteremo certamente allo sviluppo di tecnologie meravigliose, ma dovremo essere in grado di creare una buona narrazione che le sostenga; viceversa, le conseguenze saranno terribili per noi e per ogni organismo sul pianeta.
Queste sono le agghiaccianti prospettive per gli anni a venire: dobbiamo comprendere e agire. Lo stesso Harari ammette che se gli sviluppi da lui ipotizzati ci spaventassero saremmo ancora in tempo per fare qualcosa perché tutto ciò non avvenga. Mi sembra che questa sia l’unica nota di speranza.