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LA CANONIZZAZIONE

Scalabrini, il santo che portava i migranti a Cristo

Canonizzato Giovanni Battista Scalabrini, lucidissimo nel capire i bisogni, innanzitutto spirituali, degli emigrati. Si curò di mantenere viva la fede cattolica e l’amor patrio degli italiani all’estero. Tutta la sua visione dell’emigrazione è centrata sulla Provvidenza.

Ecclesia 10_10_2022

Con la canonizzazione di ieri, in Piazza San Pietro, la Chiesa conta due nuovi santi: Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), fondatore delle congregazioni dei Missionari e delle Suore di San Carlo Borromeo, che insieme formano la grande famiglia degli scalabriniani; il coadiutore salesiano Artemide Zatti (1880-1951), emigrato con la famiglia in Argentina, dove visse eroicamente la vocazione di infermiere.

Le cronache si sono concentrate particolarmente sull’attualità di Scalabrini quale “santo dei migranti”, sebbene la figura del vescovo di Piacenza (diocesi che guidò per trent’anni) si possa indicare come esemplare sotto diversi altri titoli, tra cui va ricordata la sua opera come “Apostolo del catechismo” (così lo chiamò il beato Pio IX), data la cura che dedicò alla diffusione dei fondamenti della fede e vita cristiana, scrivendo lui stesso dei volumi ad hoc (Il catechismo cattolico e il Piccolo catechismo per gli asili d’infanzia).

Anche dei giornali laici (vedi il Corriere della Sera) hanno sottolineato come Scalabrini avesse una visione lucida del fenomeno migratorio. Tuttavia è emersa di meno - anche in ambito cattolico, pur con alcune eccezioni - la portata profetica delle sue intuizioni e la preoccupazione principale di questo suo specifico apostolato, ossia: conservare la fede cattolica degli emigrati e, al contempo, contribuire così - con la loro presenza in terra straniera - a ciò che il santo vedeva come un disegno altissimo della Provvidenza, diretto verso «l’unione delle anime in Dio per mezzo di Gesù Cristo e del suo visibile rappresentante, il Romano Pontefice» (Discorso al Catholic Club di New York, 15 ottobre 1901).

Nella carità di Scalabrini, giustamente definito «vescovo al cui cuore non bastò una diocesi», il soccorso spirituale verso gli emigrati doveva essere accompagnato da un adeguato aiuto in campo linguistico-culturale e materiale. Basta leggere i suoi discorsi e scritti sull’argomento (raccolti dagli scalabriniani nella parte V del volume Antologia: una voce viva), per constatare come il programma da lui delineato affronti con estremo realismo tutti i principali bisogni e le nuove sfide emergenti dalla questione migratoria, e di come la Chiesa e lo Stato - ciascuno secondo il proprio ruolo - dovrebbero collaborare in tal senso per il bene comune.

Il periodo storico in cui visse Scalabrini era quello della grande emigrazione degli italiani verso il Nuovo Mondo. Basti qui ricordare che tra il 1880 e il 1915 circa nove milioni di italiani si recarono nelle Americhe, in cerca di miglior fortuna. Un primo impatto con questo fenomeno, di dimensioni enormi, il nostro santo lo ebbe alla stazione di Milano, dove un giorno vide 300-400 «individui poveramente vestiti», tra vecchi curvati dalle fatiche, uomini nel fiore degli anni, donne con i bambini al collo, fanciulli e giovanette in attesa di partire. La scena destò grande compassione nel santo, nella cui mente da allora ricorsero una serie di pensieri: «Quanti disinganni, quanti nuovi dolori prepara loro l’incerto avvenire? quanti nella lotta per l’esistenza usciranno vittoriosi? [...] quanti, pur trovando il pane del corpo, verranno a mancare di quello dell’anima, non meno del primo necessario, e smarriranno, in una vita tutta materiale, la fede dei loro padri?».

Scalabrini aveva studiato il fenomeno nei suoi vari aspetti sociali, statistici, nonché religiosi. E non faceva generalizzazioni. Sapeva che accanto ai molti italiani disillusi dall’atteso Eldorado - che finivano vittime di quelle che chiamava «vere razzie di schiavi bianchi» - ve ne erano anche molti che guadagnavano in agiatezza. Ma anche per questi ultimi si preoccupava del fatto che, sradicati dalla patria, dimenticassero «ogni nozione soprannaturale, ogni precetto di morale cristiana», così da «perdere ogni dì più il sentimento religioso, non alimentato dalle pratiche di pietà, e lasciare che gli istinti brutali prendano il posto delle aspirazioni più elevate». Temeva che gli emigrati cadessero nella propaganda di sette protestanti o massoniche, abbracciando l’indifferentismo.

Nel suo primo scritto sull’argomento (L’emigrazione italiana in America), pubblicato nel giugno 1887, Scalabrini registrava anche le fresche parole di un distinto giovane viaggiatore che «mi portava il saluto di parecchie famiglie dei monti piacentini attendati sulle sponde dell’Orenoque [Orinoco, fiume del Sudamerica, ndr]: Dica al nostro Vescovo che ricordiamo sempre i suoi consigli, che preghi per noi e che ci mandi un prete, perché qui si vive e si muore come bestie... Quel saluto dei figli lontani mi suonò quale un rimprovero». Esortazioni simili gli vennero da un antico discepolo, ormai sacerdote (p. Francesco Zaboglio), di ritorno da un viaggio in America.

Queste furono, in breve, le premesse che convinsero Scalabrini a fondare una congregazione di preti per dare assistenza spirituale agli italiani emigrati. Nacquero così, era il 1887, i Missionari di San Carlo, cui si sarebbe aggiunta otto anni più tardi, a completare l’opera, la congregazione femminile, così da avere suore da impegnare - innanzitutto - in scuole italiane. Respingendo le politiche di assimilazione, Scalabrini era infatti convinto che insieme all’identità cattolica si dovesse preservare anche quella nazionale, con la propria lingua e le proprie tradizioni, perché «religione e patria […] si completano in quest’opera d’amore e di redenzione che è la protezione del debole». Nella sua visione, inoltre, rientrava nella «bella e nobile missione» della Chiesa cattolica quella di temperare «le lotte di interessi delle diverse patrie, armonizzando, in una parola, le varietà delle origini nella pacificatrice unità della fede».

Poiché il santo si preoccupava, come detto, anche dei bisogni materiali degli emigrati, fondò la Società San Raffaele (1889), un’associazione di laici con il fine di assistere gli italiani al loro primo arrivo, aiutarli a trovare soccorso religioso, un lavoro e - specie per i più poveri - una casa, evitando così che finissero in mano a gente disonesta. Scalabrini, che era critico verso la figura degli agenti di emigrazione (rievocanti gli odierni mercanti di esseri umani), sosteneva la «libertà di emigrare, ma non di far emigrare, perché quanto è buona la emigrazione spontanea, altrettanto è dannosa la stimolata», specialmente «quando la si lascia andare così senza legge, senza freno, senza direzione, senza efficace tutela».

Un’altra geniale intuizione la espose sistematicamente nel Memoriale sulla Congregazione o Commissione «Pro Emigratis Catholicis», in cui - dopo i suoi viaggi negli Stati Uniti (1901) e in Brasile e Argentina (1904) - sosteneva la necessità di una specifica congregazione pontificia per coordinare gli emigrati cattolici di tutte le nazioni (in una logica simile a quella della missione ad gentes di Propaganda Fide). E, riportando esperienze opposte, scriveva tra l’altro: «Ho sentito i cuori palpitare all’unisono col mio, quando io parlavo loro col linguaggio patrio in nome della Religione. Ho visto, spettacolo doloroso! la fede spegnersi in milioni di anime per mancanza di alimento spirituale, e anche purtroppo per indegnità dei suoi ministri. Ho visto rifiorire in intere popolazioni, come una primavera delle anime, sotto il soffio di un santo apostolato, le pratiche della vita cristiana e le ineffabili speranze della Religione».

Uno spirito e una visione da recuperare.