"Salafiti", il documentario (censurato) su un nemico millenario
François Margolin e Lemine Ould Salem, nel 2016, girarono Salafistes (Salafiti), documentario sui radicali islamici. Con pochi commenti a margine, mostravano cosa dicessero e come agissero i radicali islamici. In Francia è stato boicottato d'autorità e vietato ai minori di 18 anni. Negli Usa è stato distribuito in questi giorni. I salafiti sono "estranei al vero islam" o ne sono parte integrante da più di un millennio? Impossibile non porsi questa domanda, dopo che lo si è visto.
C'è un documentario che dal 2016 di tanto in tanto torna sulla stampa e tutti discutono, ma nessuno lo vuole vedere. François Margolin, regista e produttore cinematografico, e Lemine Ould Salem, giornalista della Mauritania hanno girato e pensato Salafistes: una denuncia degli orrori dell'islam radicale. Denuncia strozzata dall'allora governo francese. E se nel frattempo di acqua sotto i ponti ne è passata, e in Francia è stato largamente censurato, in questi giorni è sbarcato negli Stati Uniti. Il che suona un po' come una vendetta per gli autori.
Più che di un mero documentario, si parla di un docu-film sugli orrori del salafismo, e tra le tantissime voci spunta pure quella di Omar Ould Hamaha, leader jihadista nel nord del Mali, ammazzato dalle forze speciali francesi nel 2014. E proprio a Timbuctù e Gao, città nel Nord del Mali, sono state riprese le frange dell'Aqmi, l'al Qaeda del Maghreb. I mali dell'islam rappresentati in immagini tanto scomode da essere allontanate. Infatti, qualcuno dice, "fanno il gioco degli islamisti". Dopo un infuocato dibattito, la commissione pubblica che valuta se un film può essere proiettato ha deciso, infatti, di vietarlo ai minori di 18 anni in Francia tre anni fa. E il ministro della Cultura, Fleur Pellerin, ha sottoscritto il divieto. "Ha criticato nero su bianco il modo in cui abbiamo fatto le interviste e come abbiamo montato il documentario. Sembra di essere ritornati all'Unione Sovietica", è stata la replica, appena dopo la polemica, di chi ha firmato il docu-film.
I salafiti sanno tutto di noi. Vivono in Europa, studiano dai nostri libri. Guardano le nostre serie televisive e conoscono le nostre abitudini e tradizioni, a volte anche meglio di noi. Ed è là che ci colpiscono. Invece noi non sappiamo proprio niente di loro, e niente vogliamo sapere. Il docu-film incriminato nasce per sopperire a questo vuoto radicale e mostrare che il salafismo, scuola dell'islam sunnita, è una vera ideologia, incredibilmente potente e in espansione. "Diffusa da gente istruita, non da imbecilli. L’idea è di mostrare come passano dalla teoria alla pratica, siamo di fronte a un fenomeno mondiale che ci minaccia tutti. Meglio tentare di comprenderlo che nascondere la testa nella sabbia", dichiaravano allora gli autori.
Oggi che Salafiti ha varcato i confini europei per arrivare negli Usa, François Margolin è tornato a parlarne. E attribuisce il merito del successo americano alla polemica firmata dai francesi e che ha fatto il giro del mondo finendo sulla stampa anglosassone e sui giornali di settore a Hollywood. Chi, però, si è occupato della distribuzione americana ha fatto notare al regista che la parola "salafita" era addirittura sconosciuta negli Stati Uniti. Il docu-film è stato così presentato con il titolo di "Jihadists".
Da New York a Los Angeles, fino a una trentina di città americane, dalla Tunisia all'Iraq. E' questo il giro che sta facendo la pellicola apprezzata, adesso, oltreoceano. Gli americani, che per natura e storicamente non hanno mai sopportato l'idea di un nemico interno, e che con l'11 settembre hanno visto la concretezza dell'invasione nemica come mai era successo neanche nelle due guerre, amano dare un nome alle cose. Perciò non potevano non restare piacevolmente stupiti dal lavoro fatto da Margolin, dove si trovano domande, ma soprattutto risposte. E pochi, pochissimi commenti.
Il regista francese in questi giorni ha tenuto a sottolineare il nesso che ha scorto tra gilet gialli e terrorismo. "I gilet gialli sono ampiamente accusati di diffondere informazioni false - dice Margolin - ma nulla viene detto quando i ministri degli Interni, in generale, liquidano i vari terroristi come personaggi dei quali non si può subito arrischiare giudizi negativi". "Il caso è più complesso di quanto non sembri", usano ripetere, ma di terrorismo islamico non parlano. Salvo, settimane dopo, aggiungere note a piè di pagina per raccontare di individui ben addestrati che agiscono in nome dell'islam". Qual è il confine di una fake news?
Dal docu-film emerge chiaramente il legame tra jihadisti e islam, ed è questo il problema: andare contro la comune doxa. Quanti inseguono la retorica che racconta di una squadra di pazzi che conduce attentati contro l'Occidente, vengono smentiti alla prova dei fatti. "Non sono folli che possiamo curare con pillole rosse o blu, o per elettroshock, come è stato fatto con i dissidenti nell'Unione Sovietica. In Francia lo stiamo facendo ancora. Siamo alla psichiatria del terrorismo. Tuttavia, come si vede in Salafiti, molto chiaramente, abbiamo a che fare con persone che ragionano, che seguono una logica", aggiunge il nostro regista mentre continuano ad accusarlo di essere egli stesso un salafita.
La censura messa in atto dimostra semplicemente che c'è un reale desiderio di negare che il salafismo sia una tendenza antica e profonda, diffusa nella storia dell'islam, all'opera da secoli, ed è ancora in corso in alcuni stati. Ad impressionare chi ha visto Salafistes è la scelta del regista di lasciar parlare i jihadisti senza aggiungere commenti: "questo è il mio modo di fare film da sempre, proprio come quello di Raymond Depardon o Claude Lanzmann. Siete impressionati dalla parole quando le sentite direttamente, senza avere un professore di scienze politiche che ti dice cosa pensare, ripetendo che 'non è che l'islam' e che 'se il terrorista ha agito solo perché cerca di ribellarsi contro l'oppressione sociale che subisce, o contro il colonialismo che i suoi genitori hanno sopportato' etc. Le parole di questi leader religiosi devono essere ascoltate, anche se sono spiacevoli e spesso riprovevoli".
Negare il salafismo, e il suo terrorismo, è un po' come negare ciò che accade, oggi, nei sobborghi di Parigi, Berlino, Stoccolma, Londra. Il luogo comune racconta che "niente ha a che fare con l'islam", e che si tratta più spesso di soli esaltati neoconvertiti. Eppure dalle parole dei salafiti che Margolin ci fa ascoltare si evince tutt'altro. C'è una radicale convinzione in quello che dicono, che fanno e nel modo in cui tendono a giustificare gli attentati, come quello di Charlie Hebdo, che è impossibile non restare turbati e, contemporaneamente, ancorati all'idea di una religione di pace completamente estranea a tutto ciò.
A tre anni circa di distanza dalle prime proiezioni in Francia, poi censurate, il lavoro di ricerca e indagine giornalistica non ha perso di attualità anche perché i salafiti non invecchiano mai.