Rwanda, la memoria del genocidio e la violenza che riprende in Congo
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Sono 31 anni dal genocidio in Rwanda, con quasi un milione di morti, di etnia Tutsi, sterminati dagli Hutu in quasi quattro mesi. Ma la violenza non è finita, si è trasferita nel vicino Congo, dove i fuggitivi hanno dato origine alla nuova guerra.

Il 7 aprile, ogni anno a partire dal 2004, ricorre la Giornata internazionale di riflessione sul genocidio Rwandese, istituita dall’Assemblea generale dell’Onu affinché in tutto il mondo si svolgano eventi e iniziative in memoria delle vittime del delirio razzista che nel 1994 in cento giorni, dal 7 aprile al 19 luglio, uccise 800mila persone, forse di più (secondo stime governative, circa 940mila). All’epoca in Rwanda il governo era in mano agli Hutu, l’etnia maggioritaria. La loro decisione di liberare il paese dall’etnia minoritaria, i Tutsi, era nata da tempo ed era stata a lungo pianificata. Fu una strage senza precedenti compiuta dall’esercito, dai paramilitari Interahamwe e dai volontari delle cosiddette “forze di difesa civile”. Insieme ai Tutsi, furono uccisi anche migliaia di Hutu, quelli contrari al genocidio.
Il generale Tutsi Paul Kagame e i suoi soldati riuscirono a fermare il massacro solo a fine luglio quando conquistarono la capitale Kigali e presero il controllo del paese, controllo che Kagame tuttora detiene. Seguirono anni difficili durante i quali decine di migliaia di Hutu accusati dei massacri, in quanto autori materiali e istigatori, furono individuati, incarcerati e processati: i principali responsabili consegnati a un tribunale speciale istituito da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e attivo ad Arusha, in Tanzania, dal 1994 al 2015, gli altri giudicati da tribunali rwandesi e, a partire dal 2001, da tribunali popolari chiamati Gacaca, creati sul modello dei consigli di villaggio, per riuscire a istituire più rapidamente i processi. Tuttora il governo rwandese continua la ricerca dei criminali, ovunque nel mondo.
Non c’è rwandese che non abbia avuto in famiglia una vittima o un carnefice. Oltre ai morti, decine di migliaia di persone furono ferite e tuttora i sopravvissuti portano impresso nel corpo il ricordo del genocidio. Tuttavia il paese, sebbene con estrema difficoltà, è tornato gradualmente alla normalità e oggi è tra i più stabili del continente. Nel 2024 il suo Prodotto interno lordo ha registrato un incremento dell’8,3%. Per quest’anno è previsto un aumento almeno del 7%. L’inflazione è stabile, i settori economici chiave sono in crescita. La stabilità però ha un prezzo. Paul Kagame governa con mano a dir poco ferma. Solo dal 2003 ha consentito che il paese andasse alle urne. Da allora ha sempre vinto con più del 90% dei voti e quest’anno addirittura con il 99%. Sono risultati che l’opposizione e non pochi osservatori attribuiscono ai brogli e alla repressione del dissenso.
Ma le conseguenze del genocidio continuano nel tempo. Nell’estate del 1994 circa due milioni di Hutu si erano riversati nella vicina Repubblica Democratica del Congo per sfuggire alla vendetta Tutsi. Furono accolti in un complesso di campi profughi, il più grande del mondo, allestito in brevissimo tempo dall’Onu nei pressi di Goma, la capitale della provincia del Nord Kivu. Con i civili in fuga però arrivarono anche i soldati dell’esercito Hutu e gli Interahamwe superstiti. Da allora lo scontro tra Hutu e Tutsi, tenuto sotto controllo in patria, dal Rwanda si è trasferito in Congo dove, nell’est, vivono delle popolazioni Tutsi, i Banyamulenge. Gli Hutu rifugiati a Goma nel 1994 iniziarono a organizzare attacchi e razzie contro i Tutsi congolesi. Quindi nel 2000 formarono un gruppo armato, le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (Fdlr).
Quegli Hutu e i loro discendenti tuttora rappresentano una minaccia per le comunità Banyamulenge. Anche i Tutsi a loro volta si armarono e oggi costituiscono la maggioranza dei miliziani M23, un gruppo formatosi nel 2012, oggi il più forte delle decine di gruppi armati che infestano le province orientali del Congo. Dal 2021 hanno attaccato e occupato territori sempre più estesi fino a controllare gran parte della provincia del Nord Kivu. Nei mesi scorsi hanno deciso di marciare su Goma e l’hanno conquistata a fine gennaio. Da lì si sono diretti verso sud e si sono impadroniti di Bukavu, la capitale della provincia del Sud Kivu. Con loro combattono alcune migliaia di militari rwandesi. Da quando Goma è caduta si stima che la guerra abbia causato circa 7mila morti e oltre 600mila profughi che si aggiungono ai 5,6 milioni già esistenti.
Il Rwanda rifiuta l’accusa di Stato aggressore. Rivendica il diritto di appoggiare gli M23 per difendere i Tutsi congolesi e per impedire alle Fdlr di penetrare in territorio rwandese. Tanto meno ammette di contrabbandare grandi quantità di minerali preziosi sottratte al Congo. Invece sarebbe questo il secondo motivo che spinge il presidente Kagame ad armare e sostenere gli M23.
Felix Tshisekedi, presidente della Repubblica democratica del Congo, e Paul Kagame a sorpresa si sono incontrati il 18 marzo a Doha, nel Qatar. Sempre a Doha il 9 aprile dovrebbero a loro volta incontrarsi per la prima volta i rappresentanti del governo congolese e degli M23, dopo che il tentativo dell’Angola di aprire un tavolo negoziale è fallito quando gli M23 all’ultimo minuto si sono ritirati per protesta contro le sanzioni imposte dall’Unione Europea ai loro leader.
È in questo clima teso, nell’incertezza di come evolverà la nuova, difficile crisi, che il Rwanda ricorda quest’anno il genocidio.