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28 ANNI DOPO

Ruanda, un genocidio che produce ancora guai

Il 7 aprile 1994 iniziava lo sterminio dei Tutsi, etnia minoritaria, ad opera degli Hutu. A fomentare l’odio etnico e dare il segnale di inizio dei massacri fu Radio Mille Colline. In cento giorni furono uccise quasi un milione di persone. Oggi il Ruanda gode di relativa stabilità, ma il genocidio produce ancora rifugiati, tensioni, scontri etnici e altri problemi.

Esteri 07_04_2022
Nyamata Memorial Site

Il 7 aprile del 1994, in Ruanda, gli Hutu, l’etnia al governo, incominciavano a far strage dell’altra principale etnia del Paese, minoritaria, i Tutsi, secondo un piano genocida programmato da mesi. Il giorno prima un missile aveva abbattuto l’aereo che trasportava il presidente ruandese Juvenal Habyarimana e quello del Burundi Cyprien Ntaryamira, Hutu anch’esso. Si diede la colpa ai Tutsi, li si accusò di complotto per prendere il potere e contro di loro si scatenò la furia popolare.

Il segnale dell’inizio dei massacri venne da Radio Mille Colline (Radio Télévision Libre des Mille Collines), una radio indipendente da tempo strumento di una campagna di odio etnico nei confronti dei Tutsi, che per settimane incitò a uccidere gli “scarafaggi”, così venivano chiamati. “La nostra fortuna è che i Tutsi non sono numerosi - gridavano i conduttori di Radio Mille Colline -, se sterminiamo definitivamente gli scarafaggi nessuno al mondo ci verrà a giudicare”. Nei 100 giorni successivi furono uccise 947.000 persone, stando alle stime governative: oltre ai Tutsi, anche molti Hutu cosiddetti moderati, che non approvavano i massacri. Uomini, donne, bambini furono uccisi a colpi di panga (simile a un machete), di mazze e asce o bruciati vivi. Morire a colpi di arma da fuoco era una fortuna. I giornalisti presenti raccontavano di persone che pagavano per la grazia di una morte istantanea per sé e per i famigliari.

In aiuto ai Tutsi, entrarono in Ruanda le truppe addestrate nel vicino Uganda, guidate da Paul Kagame, che il 4 luglio riuscirono a conquistare la capitale Kigali mettendo in fuga politici, militari e con loro mezzo paese. A uccidere i Tutsi in quei tre mesi erano stati, oltre ai soldati governativi, soprattutto gli Interahamwe, un gruppo Hutu paramilitare. Ma anche tanti Hutu avevano concorso al genocidio. Per sottrarsi alla vendetta Tutsi, più di 2 milioni di Hutu scapparono oltre confine, per la maggior parte trovando scampo nella vicina Repubblica Democratica del Congo (all’epoca Zaire) dove le Nazioni Unite allestirono il più grande campo profughi mai realizzato. In misura minore ripararono in Uganda, Tanzania, Burundi e altrove.

Gli anni successivi sono stati difficilissimi. L’Onu ha creato un tribunale speciale per giudicare i maggiori responsabili del genocidio: in tutto, alcune decine di persone. Ma in Ruanda, per quasi dieci anni, sono rimasti in carcere senza processo oltre 120.000 Hutu, in condizioni disumane per affollamento, degrado materiale e morale. Poi circa 22.000 sono stati liberati e per gli altri si sono istituiti migliaia di gacaca, dei tribunali popolari sul modello di quelli tradizionali. Come potessero amministrare la giustizia delle corti composte da personale privo di formazione giuridica e come fosse possibile evitare che diventassero uno strumento di giustizia personale, tenuto conto che praticamente tutti i ruandesi sopravvissuti erano stati in qualche misura coinvolti, come carnefici o come parenti e amici delle vittime, nel genocidio, erano considerazioni di cui non si volle tener conto, tanta era la necessità di concludere in qualche modo la crisi sociale ed economica.

Oggi il Ruanda gode di relativa stabilità, sotto la presidenza da allora ininterrotta di Paul Kagame, ma si risentono ancora gli effetti del genocidio e di ciò che è venuto dopo. Proprio in questi giorni è incominciato il rimpatrio volontario assistito di circa 3.000 rifugiati ruandesi che ancora si trovano in Mozambico e che solo adesso si sono convinti che la situazione nel loro Paese sia cambiata e che il loro ritorno in patria sia sicuro. A convincerli è soprattutto la speranza che il governo ruandese manterrà fede alla promessa di inserirli in un programma di reintegrazione nella vita sociale ed economica del Paese.

Intanto, però, il genocidio del 1994 produce ancora rifugiati. Insieme agli Hutu terrorizzati, decine di migliaia di militari governativi e di combattenti Interahamwe si erano rifugiati nei campi profughi di Goma, nell’est del Congo, usandoli per riorganizzarsi e compiere incursioni notturne in Ruanda e nei territori congolesi abitati da etnie Tutsi. Tra i gruppi armati che adesso infestano le province orientali del Congo, ci sono le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda, la principale milizia Hutu che raggruppa numerosi Interahamwe, e gli M23, composti prevalentemente da Tutsi congolesi. Gli scontri delle due milizie tra di loro e con l’esercito governativo congolese sono frequenti. Ne fanno le spese le popolazioni locali che inoltre vivono sotto la costante minaccia di attacchi a scopo di razzia da parte dei combattenti di entrambi i gruppi armati. Quando riescono, i civili cercano scampo nella fuga.

È un continuo formarsi e sciogliersi di gruppi di sfollati e di rifugiati oltreconfine. Negli ultimi giorni di marzo, ad esempio, scontri tra M23 e soldati governativi hanno spinto centinaia di abitanti della provincia del Nord Kivu a fuggire in Uganda da dove molti sono già rientrati approfittando della temporanea sospensione dei combattimenti. Per giorni si sono accampati in scuole e chiese appena oltre confine o sono stati ospitati da parenti e amici. La maggior parte di loro hanno rifiutato di registrarsi presso le autorità ugandesi, come vorrebbe il protocollo internazionale per i richiedenti asilo, e di rivolgersi per aiuto alle agenzie umanitarie locali perché in tal caso sarebbero stati destinati ai centri di reinsediamento dove sarebbero stati assistiti, ma avrebbero poi avuto più difficoltà a tornare a casa.

Ogni anno in Ruanda il 7 aprile è un giorno festivo, dedicato al ricordo del genocidio. Dà inizio a un lungo periodo di lutto che dura fino al 4 luglio, il Giorno della liberazione. Nel 2018 le Nazioni Unite hanno proclamato il 7 aprile Giornata internazionale di riflessione sul genocidio del 1994 contro i Tutsi in Rwanda, con la raccomandazione a tutti i Paesi membri di celebrarlo.