Rivelazione ed ermeneutica in Ratzinger, spiegate da Gagliardi
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Nel volume “Rivelazione, ermeneutica e sviluppo dottrinale in Joseph Ratzinger”, don Mauro Gagliardi presenta l’approccio complessivo alla fede, alla teologia e al dogma del grande teologo tedesco, divenuto papa Benedetto XVI.
Il teologo don Mauro Gagliardi ha pubblicato un libro di presentazione e valutazione complessiva del pensiero di Joseph Ratzinger a proposito di un nucleo di temi teologici fondamentali: “Rivelazione, ermeneutica e sviluppo dottrinale in Joseph Ratzinger”, edito dall’Ateneo Romano Regina Apostolorum, Roma 2023. Si tratta di un lavoro importante che non si sofferma su un aspetto particolare del lascito teologico di Ratzinger, ma investe il suo approccio complessivo alla fede, alla teologia, al dogma.
L’esposizione segue lo sviluppo cronologico delle pubblicazioni di Ratzinger sugli argomenti a tema, iniziando dalla Tesi di abilitazione dedicata alla teologia della Rivelazione in san Bonaventura, passando agli scritti della maturità, alle pubblicazioni del periodo “episcopale” a Monaco e alla Congregazione per la Dottrina della fede, per arrivare infine alle interpretazioni sull’ermeneutica che lambiscono anche il periodo del pontificato, con qualche accenno al Gesù di Nazareth e un rimando in nota al discorso del dicembre 2005 alla Curia romana sull’ermeneutica del Concilio, tema in cui però il nostro autore non entra. Il libro è dedicato alla “Cara memoria di Benedetto XVI”, a dimostrazione della grande stima nei suoi confronti; l’esposizione è di grande rigore e qua e là si possono notare anche delle osservazioni rispettosamente critiche. Si tratta di un’opera importante per capire a fondo le grandi linee teologiche di colui che sarà poi papa Benedetto.
Secondo Gagliardi, Ratzinger, fin dagli anni del Concilio, si mostra influenzato dal personalismo – pur se riletto alla luce di sant’Agostino – e dall’attenzione alla storia, in chiave critica rispetto al neotomismo di allora, senza tuttavia tralasciare la metafisica (p. 29), come hanno invece fatto altri suoi compagni di strada. Questo lo guida a riconsiderare la tesi tridentina delle due fonti della Rivelazione, la Scrittura e la Tradizione, e pensare alla Rivelazione come unica fonte dalla quale scaturiscono «entrambi i rivoli della Scrittura e della Tradizione» (p. 33). La prima rappresenterebbe la dimensione ontologica e la seconda quella gnoseologica della Rivelazione. Questo lo porta a contrapporsi all’insegnamento di Pio X che al decreto Lamentabili (1907) del Sant’Uffizio fece dire che la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo apostolo. La Tradizione, secondo Ratzinger, non comporta la trasmissione orale di conoscenze rivelate, che non ci sono nella Bibbia, come ritiene invece la tesi delle due fonti, perché in questo caso la fede cristiana sarebbe venata di gnosticismo caratteristico delle tradizioni ereticali. La Tradizione viene intesa non come “trasmissione meccanica” ma come “processo dinamico”, essa non è una fonte esterna rispetto alla Scrittura, ma è nella Sacra Scrittura stessa sulla base del potere di interpretazione trasmesso alla Chiesa (p. 37). Ecco emergere l’ermeneutica, per cui la Scrittura rimanda a quanto è avvenuto una volta nella Storia ed è valido sempre (aspetto ontologico), mentre la Tradizione incarna il presente vivo della fede (aspetto gnoseologico). In questo modo la Rivelazione non è solo del passato ma anche del futuro.
Questa visione assegna un ruolo essenziale all’ermeneutica. La Rivelazione così come veniva intesa dalla Dei Filius del Vaticano I è, secondo Ratzinger, troppo intellettuale e dottrinale in quanto intende la Rivelazione come trasmissione di notizie e nozioni. La fede è superiore alla Scrittura e proprio in questo consiste la Tradizione, la quale è «sempre interpretazione» (p. 41). La Rivelazione è superiore alle verità rivelate perché incentrata sull’avvenimento di Gesù e comporta una «fondamentale decisione ermeneutica» per cui «il processo del comprendere non è nettamente distinguibile da ciò che viene compreso» (p. 44). Non si può cadere in questo modo, si chiede Gagliardi, in una «arbitraria creatività»? L’autore risponde che secondo Ratzinger no, perché non viene negato l’aspetto concettuale, ma solo viene considerato non isolato rispetto all’interpretazione a partire dalla fede del Simbolo apostolico.
Si apre a questo punto la problematica del cosiddetto sviluppo dogmatico. Data la centralità dell’ermeneutica, Ratzinger dice che «il dogma è la forma ecclesiale di ermeneutica della Sacra Scrittura» (p. 51) e, vista la sua visione dinamica di Tradizione, egli parla di storicità del dogma. La Tradizione, come uno dei due rivoli della Rivelazione, non è una fonte a parte, ma è l’ermeneutica vera della Scrittura e per questo non si può pensare che sia terminata con la morte dell’ultimo apostolo (p. 53). L’esperienza è parte fondamentale della Rivelazione perché la Tradizione è la vivente esplicitazione nel presente del messaggio veicolato dalla Scrittura e la Scrittura può essere Rivelazione solo nell’esperienza di fede (p. 61). Contrapponendosi ad una visione solo intellettuale della fede, Ratzinger non intende però esaltare oltre misura l’esperienza, come avrebbe fatto Karl Rahner che considerava tale ogni atto di fede esistenziale, e rifiuta la dottrina del “cristianesimo anonimo”. Ratzinger, intendendo la teologia come “scienza ermeneutica”, tiene ferma sia la metafisica contro la teologia liberale, sia l’esperienza, da non intendersi però in senso descrittivo (p. 66). Le due dimensioni dell’oggetto e del soggetto proprie della teologia come ermeneutica vivono insieme nella Chiesa: «(…) il nuovo, grande soggetto, nel quale si toccano passato e presente, soggetto e oggetto» (p.70). Come affermato nel discorso ai Bernardins del 12 settembre 2008: «La Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto» (p. 88).
Secondo Ratzinger l’espressione “storicità del dogma”, concetto che nasce dalla sua idea che la Tradizione è interpretazione, non significa che la costante interpretazione possa cambiare i contenuti dogmatici del Simbolo apostolico, né che possano essere cambiate le parole della Scrittura. Egli vuol dire che ci deve essere un’interpretazione sempre rinnovata della Scrittura. La fede fa da testo e la teologia fa da interpretazione (p. 74). Ciò significa «dire di nuovo ciò che la Bibbia dice» (p. 83). Non si tratta di “ammodernare” dando il primato alle idee oggi di moda.
Così pensando, Ratzinger si misura con l’aspetto filosofico dell’ermeneutica, le acquisizioni della quale egli dice che non si possono trascurare (p. 109). Ratzinger dice che «la Scrittura è interpretata dalla Tradizione e il soggetto della Tradizione è la Chiesa» (p. 110), e che la fede della Chiesa è la comprensione assolutamente necessaria per entrare davvero nel testo; solo nel rapporto personale con Gesù il credente può conoscere il Gesù «scritto nei testi di duemila anni fa» (p. 92). Egli afferma anche che «la spiegazione come processo del comprendere, non è infatti nettamente distinguibile da ciò che viene compreso» (p. 124). Una frase, questa, che sarebbe condivisa anche da Heidegger, Gadamer o Lévinas. L’ermeneutica filosofica contemporanea, però, si sostituisce alla metafisica e, così, cessa di essere conoscenza per essere solo interpretazione. Il soggetto è chiuso nell’interpretazione perché nell’interpretato c’è anche lui stesso che interpreta. La tradizione del realismo metafisico non si sarebbe posta su questo sentiero, che Ratzinger percorre cercando di garantire un sano equilibrio tra metafisica e storia, e anche avvicinandosi progressivamente, come qualcuno ha notato, a san Tommaso, ma che non sempre risulta completamente chiarito quanto al rapporto con la versione moderna dell’ermeneutica e le sue implicanze.
I riflessi di questa problematica emergono per esempio da alcune valutazioni critiche dell’ermeneutica della riforma nella continuità espresse da Benedetto XVI nel discorso del dicembre 2005 alla Curia romana. Gagliardi, come già accennato, non ne parla, ma ugualmente mi permetto un breve riferimento. Alcuni commentatori hanno notato che nella frase «della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa» non si fa cenno alla continuità dei contenuti dottrinali, ma solo alla continuità del soggetto. È chiara la dipendenza di questa impostazione dall’impianto generale della teologia di Ratzinger: non c’è Scrittura senza Tradizione e senza Chiesa, i contenuti sono tali solo dentro il soggetto Chiesa. La nozione di Tradizione come comunicazione di contenuti non viene esclusa ma è ritenuta secondaria (p. 115) perché del concetto di Rivelazione fa parte anche il soggetto che riceve la rivelazione nella fede: serve una dottrina fissata ma anche una dimensione esistenziale della fede. La Rivelazione ha il primato sul depositum fidei (p. 118). Si torna così all’opposizione giovanile di Ratzinger alla dottrina delle due fonti della Rivelazione, quando egli negava che la Tradizione orale avesse dei propri contenuti materiali e sosteneva che «non esistono verità singole che come tali, a partire dagli apostoli, sarebbero state trasmesse dalla Chiesa» (p. 121).
Su queste basi si può dire che l’aspetto contenutistico della continuità c’è, ma è dentro l’ermeneutica della Chiesa. Tesi, questa, che qualcuno potrebbe però accusare di aver concesso troppo all’ermeneutica moderna, sicché l’affermazione sull’ermeneutica del Vaticano II sarebbe comunque troppo soggettiva; e l’ermeneutica rimarrebbe solo interpretazione a partire da una “precomprensione” e non vera conoscenza. L’argomento ha anche un riflesso sul posto occupato dal Magistero. Se la Tradizione è interpretazione, anche il Magistero lo è, ma allora anche quanto insegna il Magistero appartiene alla Rivelazione? Una volta chiarito che il compito del Magistero non è di “aggiornare” la fede alle mode del momento, ma di farla risuonare così come essa è da sempre e per sempre, rimane da precisare se ciò possa essere chiamato Rivelazione.