Risurrezione, è il fondamento indispensabile della nostra fede
Pubblichiamo alcune pagine tratte dal libro di Vittorio Messori "Dicono che è risorto", (editrice Ares), riedizione rivista del libro uscito per la prima volta nel 2000. Si tratta di una vera e propria «indagine sul sepolcro vuoto di Gesù», come ci indica il sottotitolo, una lettura storica e teologica delle testimonianze dei Vangeli che la liturgia ci presenta in questi giorni.
- LIBERTÀ RELIGIOSA E PANDEMIA NELLA PASQUA DEL PAPA, di Nico Spuntoni
Dice il celebre teologo svizzero [Karl Barth]: «Possiamo essere protestanti o cattolici, ortodossi o riformati, di destra o di sinistra. Ma, se vogliamo che la nostra fede abbia fondamento, dobbiamo aver visto e udito gli angeli presso il sepolcro spalancato e vuoto». Cerchiamo dunque di esaminare con qualche ampiezza il perché di questa situazione.
Nella primavera dell’anno 56 (questa la datazione più tarda,ormai indiscussa), Paolo scrive una Lettera ai cristiani di Corinto, il grande e turbolento porto cosmopolita a cavallo di due mari. Nella comunità fondata di recente, forse dallo stesso Apostolo, la mentalità ellenistica continua a recalcitrare davanti all’annuncio della risurrezione di Gesù (...)
Per richiamare i fratelli a quel fondamento indispensabile, Paolo ripete loro la formula di fede che egli, ricorda testualmente, «ha trasmesso prima di ogni altra cosa» ma che, precisa, «anch’egli ha ricevuto» dalla predicazione cristiana primitiva. Senza la fede espressa in questa formula, anche i Corinzi, come ogni altro battezzato, avrebbero «creduto invano». Questo brano – contenuto nel capitolo 15 della Prima lettera agli abitanti di Corinto – è di importanza fonda-mentale. (...).
Qui, infatti, per la prima volta, ci è riferito come era annunciata la risurrezione di Gesù circa 25 anni dopo l’evento. (...) Ascoltiamo ora nella sua interezza questa reliquia, venerabile per il credente ma anche preziosissima per lo storico che tenti di ricostruire le origini del cristianesimo. Così, dunque, Paolo riferisce la formula ormai fissata, che diamo divisa in versetti come dovette essere in origine per facilitarne l’apprendimento a memoria o per cantarla, se davvero, come sostengono molti biblisti, era un inno liturgico:
Cristo morì per i nostri peccati / secondo le Scritture, / […] fu sepolto ed […] è risorto il terzo giorno / secondo le Scritture, / […] apparve a Cefa / e quindi ai Dodici. / In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: / la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. / Inoltre apparve a Giacomo, / e quindi a tutti gli apostoli. / Ultimo fra tutti apparve anche a me, come a un aborto (1 Cor 15,3-8).
È, questo, un Credo già intoccabile che i predicatori dovevano imparare e che insegnavano a loro volta ai neofiti, prima ancora di ogni catechesi e istruzione: «A voi infatti ho trasmesso, anzitutto (en prótois, «nelle prime cose», come dice il testo greco)».(...) Qui, ci interessa soprattutto quanto l’Apostolo fa seguire a questo kérygma, a questo (etimologicamente) «annuncio dell’araldo». Egli avverte i Corinzi dell’importanza decisiva del messaggio pasquale: «Se Cristo non è risorto, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede».
«Se Cristo non è risorto», ripete subito dopo, «è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati». Anzi, aggiunge, «anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1 Cor 15,18-19).
Così è, dunque, nell’economia del cristianesimo: è su questi racconti della risurrezione che tutto sta o cade.
Scrive Heinz Zahrnt: «Nel Credo, così come è ancora oggi recitato dai cristiani, sono nominati altri avvenimenti che esulano dal campo dell’esperienza storica, per esempio, la nascita da una vergine o la discesa agli inferi. Ma questi fatti non hanno la stessa importanza della risurrezione. Quei fatti «prodigiosi» sono nominati soltanto in pochi passi del Nuovo Testamento: Paolo, per esempio, non li cita. Al contrario, non c’è parte del Nuovo Testamento che non sia risonante della testimonianza della risurrezione.
Non è certo un caso se gli antichi predicatori del Vangelo non annunciavano affatto, per prima cosa, dei programmi socio-politici o delle edificanti saggezze o le indicazioni morali del rabbi Gesù. No: essi annunciavano, prima di ogni altra cosa, che quel Gesù di Nazareth, che era stato «annoverato tra i malfattori» e come tale crocifisso, alla fine si era «levato dai morti». Integrando sempre e subito questa affermazione – «Gesù di Nazareth è risorto» – con l’altra: «E noi ne siamo testimoni».
(...) Dobbiamo esserne ben consapevoli: senza la Pasqua, la Chiesa non sarebbe che un club, una «associazione di amici del maestro Gesù», alla pari di tanti gruppi e circoli nati attorno alla memoria di un grande della cultura, della scienza, della politica. Ammiratori, fans, che sul loro beniamino organizzano convegni e pubblicano bollettini. Se Gesù non è risorto, non si può più credere in lui come Salvatore: si può solo, al più, rispettarlo come maestro. Si può rievocarlo, ma non invocarlo. Si può parlare di lui, ma non parlare a lui. Si può ricordarlo, ma non incontrarlo.
Se non è risorto, sono i cristiani a far vivere lui. Non è lui a fare vivere loro. Di molti altri, di centinaia di sventurati suoi contemporanei, è possibile dire: «Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto». Perché, però, sia quel che la fede crede, è necessario che si possa anche aggiungere: «Ma, dopo tre giorni, risuscitò dai morti».
Comunque, va pur detto che questa affermazione decisiva non è soggetta ad alcuna verifica «scientifica». Qui, nessuna scoperta archeologica di nessun futuro potrà mai dare la prova che il corpo di quel condannato a morte si è decomposto in qualche fossa comune; o che, al contrario, la tomba del notabile Giuseppe d’Arimatea è rimasta per sempre scoperchiata, vuota di un Occupante rialzatosi in piedi. Qui, è necessario fidarsi di coloro che dicono di averlo visto risorto, ritornato in vita. Bisogna dare credito ad altri uomini, a un gruppo di testimoni privilegiati: la comunità cristiana; la Chiesa, in una parola.
Si vede, anche in questo modo, che la fede non può nascere né vivere «solitaria», «isolata»: per la sua fondazione stessa deve appoggiarsi a una comunità, senza la cui testimonianza non c’è né annuncio, né certezza della risurrezione.
E se non c’è risurrezione non c’è cristianesimo.