Riformare la giustizia
In uno Stato di diritto il corretto funzionamento della giustizia e la salvaguardia dell’integrità e terzietà della magistratura devono essere capisaldi imprescindibili. Per questo si può guardare con attenzione ai referendum proposti dai Radicali su questo tema.
Il 28 maggio i Radicali hanno presentato sei quesiti referendari sulla cosiddetta “Giustizia giusta”. Ci divide un abisso dai Radicali per concezione della vita, assetto valoriale, essenza dell’etica. Riteniamo, però, che in uno Stato di diritto il corretto funzionamento della giustizia e la salvaguardia dell’integrità e terzietà della magistratura debbano essere capisaldi imprescindibili. Per decenni in questa materia il legislatore si è caratterizzato per inerzia e in questo modo i problemi della giustizia italiana si sono incancreniti. Ora Pannella e i Radicali riprovano a smuovere le acque.
I primi due quesiti riguardano la responsabilità civile dei magistrati, i quali, a differenza di altri funzionari dello Stato, non pagano per i propri errori. I quesiti non hanno un intento punitivo. Si propone la cancellazione del filtro di ammissibilità nelle richieste di risarcimento per responsabilità civile dei magistrati, per rendere più agevole per il cittadino l’esercizio dell’azione civile risarcitoria (indiretta) nei confronti dei magistrati, e ciò anche per i danni da questi cagionati nell’attività di interpretazione delle norme di diritto o nella valutazione dei fatti e delle prove. Attualmente il magistrato non risponde civilmente per eventuali errori commessi. Ne risponde invece lo Stato, che si può rifare sul magistrato se ce ne sono gli estremi, e ci sono stati forse un paio di volte in venticinque anni. E’ vero che il magistrato svolge un lavoro così delicato e offre un così alto servizio allo Stato che chiedergli di riparare con esborso di denaro a ogni errore significherebbe limitarne vistosamente l’autonomia e i margini di manovra. Appare però giusto introdurre sistemi progressivi e severi di blocco delle carriere e di riduzione dello stipendio in riparazione alle colpe più gravi, o alle sciatterie più evidenti, cosa che oggi non succede.
Non si capisce perché un medico, nelle cui mani affidiamo la nostra salute, se sbaglia diagnosi o intervento deve risarcire di tasca sua, mentre una toga può sempre cedere alla faciloneria perché tanto alla fine paga lo Stato. Già nel 1987 si tenne un referendum (il cosiddetto "referendum Tortora") che mirava a far sì che il giudice che avesse arrecato, con dolo o colpa grave, un danno al cittadino, fosse tenuto a risponderne sul piano civile: si trattava, in sostanza, di abrogare gli articoli 55, 56 e 74 del Codice di procedura civile, che impedivano al magistrato di rispondere in sede civile dei suoi errori, come invece accadeva (e accade) per qualunque altro funzionario dello Stato. Oltre l'80% dei cittadini votò “sì”, indicando chiaramente la volontà di chiamare a rispondere, ad esempio, i giudici che emanavano mandati di cattura clamorosamente sbagliati a causa di omonimie non controllate, o che ordinavano una carcerazione preventiva con leggerezza, o che, in base a vaghi sospetti, mettevano a repentaglio i più elementari diritti dei cittadini.
Il terzo quesito riguarda la separazione delle carriere tra giudice e Pubblico ministero. "Il modello processuale del giusto processo imposto dall'articolo 111 della Costituzione e proprio di ogni democrazia liberale - sostengono i Radicali - non può realizzarsi senza un giudice 'terzo', ossia realmente equidistante tra il pubblico ministero e il difensore". Non si deve mettere allo stesso livello il giudice e il Pm, bensì il Pm e il difensore. Il giudice giudicante è terzo per definizione. Il Pm non può dunque essere un suo collega.
Il quarto quesito riguarda il collocamento dei magistrati fuori ruolo e prevede per questi ultimi misure restrittive. Per i collocati fuori luogo è richiesta chiarezza sull’eventuale lavoro. La richiesta è che si tratti di un lavoro che preveda restrizioni. Quest’anno ci sono state 21 domande di magistrati candidati agli uffici ministeriali. I magistrati che hanno chiesto di andare a fare i capi di gabinetto sono stati tutti collocati fuori ruolo, mentre i giudici che aspirano a dirigere gli uffici legislativi continueranno a fare il doppio lavoro, così come (quasi in tutti i casi) è stato fino a oggi: terranno udienze e scriveranno sentenze nei tribunali di appartenenza e contemporaneamente lavoreranno nel ministero. Un doppio incarico che non solo li espone a potenziali conflitti di interesse, ma indebolisce anche gli organici degli uffici giudiziari in cui sono in forza.
Il quinto quesito riguarda la custodia cautelare, della quale in Italia si abusa di frequente. I Radicali vorrebbero limitarne l’uso ai casi strettamente necessari. Secondo loro, "lo strumento della custodia cautelare in carcere ha subìto una radicale trasformazione: da istituto con funzione prettamente cautelare a vera e propria forma anticipatoria della pena con evidente violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza". Il sesto e ultimo quesito è per l'abolizione dell'ergastolo. "Abolire il carcere a vita – sostengono i Radicali- significa superare il concetto di pena come vendetta sociale. In molti Paesi europei, e non solo europei, l'ergastolo non è previsto neppure come ipotesi. Quello che deve essere chiaro, al di là delle opinioni politiche e personali, è che la nostra Costituzione afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. E il 'fine pena mai' è incompatibile con questo principio costituzionale".
La tiepida accoglienza che questi quesiti hanno ottenuto presso le forze politiche e il silenzio assordante che ne sta accompagnando la pubblicizzazione non lasciano sperare nulla di buono circa il loro esito. Ma ci sarebbe invece da auspicare che questa consultazione referendaria facesse davvero breccia nell’opinione pubblica per consentire al nostro Paese di rinnovarsi anche nei meccanismi di funzionamento della giustizia, restituendo credibilità alla magistratura nel suo complesso e fiducia dei cittadini nel processo.