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IL CASO

Richie, il bimbo senza occhi e il nostro sguardo

Vive in Arizona, Stati Uniti e ha solo tre mesi di vita. Ma il piccolo Richie è nato con una rara malformazione: non ha gli occhi. I genitori hanno saputo accogliere la sua condizione con un atteggiamento che ha dello sbalorditivo. Sono convinti che il futuro di Richie sarà impegnativo, ma pieno di vita. Ecco la storia.

Cronaca 08_07_2015
Richie, il bimbo nato senza gli occhi

Come fanno i genitori di un bambino nato senza occhi a dire che comunque «lui è felice»? Come fa la mamma di Richie, così si chiama il piccolo, a sperare che un giorno «possa riavere i suoi occhi, che gli crescano, o magari che gli possano venire trapiantati»? Chi mai l’autorizza a esibire una speranza che nulla ha a che fare con l’evidenza dei fatti? Quella inaccettabile, ma concreta della cecità, la più brutta, assurda e crudele delle privazioni: l’impossibilità dello sguardo, del poter affrontare la vita alla pari guardandola dritta in faccia. Ma anche di lato o sottosopra. Come è giusto e normale che sia per tutti i bambini venuti oggi al mondo, perché nessun destino o disegno che sia avrà mai il diritto di truccargli le carte in questo modo. E dunque: ciechi e senz’occhi pure quei genitori nel loro comprensibile ma infondato atto di fede? 

Richie vive in Arizona (racconta il sito di aleteia.org/it che ha rilanciato la notizia) e la mamma Kelly Lopez, dice che quando è venuto al mondo sembrava non riuscire ad aprire gli occhi. I medici del Banner Desert Medical Center di Mesa l’avevano inizialmente tranquillizzata, ma il responso scioccante è giunto soltanto in seguito con la risonanza magnetica: Richie non aveva gli occhi. Sette settimane dopo gli vengono applicati sotto le palpebre degli speciali extender per creare lo spazio che di solito è occupato dai bulbi oculari. Quando il viso gli sarà un po’ cresciuto, il bimbo potrà indossare delle protesi. Questi extender erano stati fissati con dei leggeri punti di sutura, ma, racconta la mamma, «Richie che è un bimbo vivace, muovendosi e fregandosi le palpebre è riuscito a toglierseli e a buttarli a terra. Mi sono accorta che mancavano durante una poppata notturna. Uno dei due non è più stato ritrovato , forse se l’è stato ingoiato il nostro cane. L’altro, l’ho riposizionato con le mie mani seguendo le istruzioni fornite al telefono dal chirurgo chiamato nel cuore della notte». 

Nel ricordare l’episodio, Kelly pare divertita: così il dramma si stempera nella commedia buffa con la scenetta umoristica di Fido che si pappa l’occhio finto di Richie scambiandolo per un delizioso biscottino. Invita al sorriso anche lo scatto che raffigura Richie che pare scimmiottare la vanità degli adulti con un grande paio di occhiali da sole: foto immancabile negli album di tutte le famiglie del mondo, ma che per i genitori del piccino deve avere tutt’altro significato. Già, ma quale? Oggi Richie è stato inserito in uno speciale programma educativo e si sta divertendo con giocattoli appositamente studiati per lui. Per ancora qualche mese, la sua oscurità non sarà ancora tanto diversa da quella che lo circondava quando nuotava e scalciava felice nell’utero della mamma. Ma dopo? Che ne sarà di quella “felicità” incosciente, murata nell’ombra e senza volti? A immaginare che futuro si prepara per Richie, l’angoscia dilaga e occupa il cuore senza più difese. E poi la domanda su com’è possibile (se davvero lo è) stare davanti a quel bambino, guardarlo e sostenere il suo volto senz’occhi, con la stessa speranza della mamma. Terribile e forse impossibile, ma è il solo pensiero legittimo, degno di stare all’altezza della tragedia senza sprofondarci dentro. Ciascuno risponda per sé e come può. 

Ci può aiutare, forse, questo passaggio che lo scrittore francese Emmanuel Carrère ci propone in una stupenda pagina del suo ultimo romanzo Il Regno. Non c’entra nulla con la vicenda del bimbo americano, ma pare scritta apposta per offrire un appiglio al nostro spaesamento e ridare una chance alla speranza. Carrère scrive dopo aver letto su Libèration la notizia di un bambino di quattro anni rimasto cieco, muto e sordo dopo un intervento chirurgico: «… Chiedo quale possa essere la preghiera di uno che come me vuole credere in Dio, dopo che ha letto una cosa simile. Che cosa possa chiedere a quel Padre di cui il figlio Gesù ha detto: “Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà”. Un miracolo? Che quello che è successo non sia successo? O che egli riempia della sua presenza dolce, rassicurante, colma di amore quel bambino murato vivo? Che illumini le sue tenebre e faccia di quell’inferno inimmaginabile il suo Regno? Altrimenti, che cosa resta? Altrimenti bisogna ammettere che, gratta gratta, la realtà della realtà, l’ultima parola non è il suo amore infinito, ma l’orrore assoluto, l’inesprimibile spavento di un ragazzino di quattro anni che riprende coscienza nel buio eterno». Forse trova qui le sue ragioni anche l’ingenua certezza della coraggiosa mamma di Richie.