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AUTONOMIA

Regioni più virtuose dello Stato: serve una riforma

Mattarella parla di autonomia ma bisogna avere fiducia nella capacità di autogoverno dei nostri territori (che sbagliano ma meno dello Stato), con il solo limite di dimostrare di spendere bene i fondi della fiscalità generale. Vanno corrette le storture della riforma del 2001 del titolo V della Costituzione, soprattutto l’aberrazione dei poteri concorrenti

Politica 10_06_2020

«Il principio di autonomia, delle Regioni e degli enti locali, è alle fondamenta della costruzione democratica», così Mattarella ieri, nel 50º anniversario delle prime elezioni regionali. Parole sagge e quanto mai opportune, quelle del Presidente, in un momento in cui risorgono tentazioni stataliste e centraliste, e c’è chi mette in discussione lo stesso ordinamento regionale, o vorrebbe togliere alla responsabilità delle regioni nientemeno che i poteri in materia di sanità. 

Certo, nella lotta contro il Covid 19 errori ne sono stati commessi, e saranno indispensabili indagini approfondite e severe per individuarli e porre riparo. Ma sono stati commessi da entrambe le parti, Stato e Regioni, volendo qui limitare a loro la riflessione, senza allargarla ad altri attori come l’OMS o la stessa Cina.

Ma non c’è una sola ragione per mettere sotto processo la Lombardia o le altre Regioni. Più passa il tempo più risulta evidente che l’organizzazione regionale ha permesso di evitare guai peggiori: la sanità vicina al territorio anche questa volta ha funzionato meglio (o ha fatto meno errori) di qualunque organizzazione centralista. E questo valga come monito per l’immediato e per il futuro: i soldi in arrivo per la sanità, per esempio i 37 miliardi del MES, siano inquadrati in linee guida nazionali ma siano poi spesi dalle Regioni sul  territorio in tempi molto stretti, altrimenti rischiamo di non vederne mai l’effetto positivo.

Ma torniamo al principio dell’autonomia ricordato da Mattarella. Esso è fondamento della storia d’Italia, che prima ancora di diventare Nazione è storia di comunità, di borghi, di comuni, e poi di regioni. Centralizzare sarebbe mutilare e infine cancellare la stessa identità nazionale. Io credo al contrario che bisogna avere fiducia nella capacità di autogoverno dei nostri territori, con il solo limite di dimostrare di spendere bene i fondi che provengono dalla fiscalità generale.

Il governo si decida dunque a proseguire e a concludere il negoziato con quelle Regioni che, ai sensi della Costituzione e non contro di essa, chiedono più autonomia, e che non sono solamente Regioni del Nord (Lombardia e Veneto) ma anche del Centro (Emilia-Romagna e Marche) e del Sud (Campania), a dimostrazione di come l’istanza è avvertita in tutta la nazione. Dare più autonomia significa valorizzare le specificità e le diversità dei territori, che sono la forza e la caratteristica del nostro paese. E significa dare più responsabilità, perchè le nuove competenze devono essere attribuite a chi dimostra di avere i conti in ordine in quel dato campo, inducendo quindi una virtuosità finanziaria di cui ognuno avverte la necessità.

Vanno corrette le storture della riforma del 2001 del titolo 5º della Costituzione, soprattutto l’aberrazione dei poteri concorrenti che ha prodotto infiniti conflitti e ha rallentato la realizzazione di importanti strutture. Ma le correzioni vanno fatte non all’insegna di una nuova centralizzazione, di un nuovo statalismo, ma del principio di attribuire i poteri a quel livello di governance che meglio è in grado di prendere decisioni adeguate (è il principio di sussidiarietà della tradizione cattolica e liberale). Poteri chiari e definiti a ciascun livello della Repubblica, Comuni, Provincie (se saranno tolte dal limbo in cui sono), Regioni. La repubblica va confermata una e indivisibile, ma ribadendo che l’unità deve essere quella di un organismo vivente in cui le membra collaborano lealmente in vista del raggiungimento del fine comune.

Ritengo quanto ho fin qui descritto indispensabile perchè la ricostruzione della nostra economia, la cosiddetta "fase 3", avvenga in modo il più possibile ordinato ed efficiente. Con responsabilità chiare e centri decisori definiti. In prospettiva, ritengo poi che dovrà essere affrontato il pluridecennale dibattito sul riordino del numero delle Regioni, alcune delle quali sono certamente troppo piccole e inefficienti. Secondo quali modalità? Ci sarà modo di parlarne.

Voglio solo ricordare che negli ultimi 30 anni sono stati fatti tre studi seri. Personalmente scarto l’ipotesi del professor Miglio che proponeva tre Macroregioni, Nord, Centro e Sud, che mi sembra oggi improponibile. Resta lo storico studio della Fondazione Agnelli con 12 Regioni, o uno studio più recente (2010) della Lombardia con 8 Regioni, rispettoso della storia di ognuna ma anche della esigenza di una maggiore omogeneità. Sono ipotesi, è ovvio, ma il legislatore non dovrebbe dimenticarsene.