Radio Radicale? No, non è servizio pubblico
Il finanziamento statale per Radio Radicale, anche se giustificato da un presunto servizio pubblico offerto dall'emittente, in realtà è contrario al bene comune e al principio di sussidiarietà. Ecco perché.
Radio Radicale vive con i soldi pubblici (cioè dello Stato, cioè nostri) perché, così almeno si dice, svolge anche un servizio pubblico. Lo farebbe in due modi: trasmettendo le cronache parlamentari e ospitando notizie e approfondimenti di molteplici voci che altrimenti non troverebbero espressione. Quindi – è la conclusione di molti – Radio Radicale deve continuare a ricevere il finanziamento dello Stato per poter continuare a vivere e a svolgere il suo servizio pubblico. Non sono d’accordo e vorrei spiegare perché.
Il ragionamento di coloro che difendono i finanziamenti a Radio Radicale confonde il bene comune col bene pubblico. Il bene pubblico consiste o nel bene dello Stato (nella completa articolazione dei cosiddetti enti pubblici), o nella soddisfazione dei desideri dei singoli cittadini, oppure nella salvaguardia di uno spazio (detto) pubblico di confronto e discussione. Come si vede, il bene pubblico è neutro rispetto ai contenuti, ai principi e ai valori. Tutte e tre le definizioni viste sopra possono essere riempite da ogni contenuto. Partendo da questa visione (errata) allora si può dire che Radio Radicale svolga un servizio pubblico.
Se invece consideriamo il bene comune, ossia valutiamo i contenuti di verità e di bene invece che i metodi, vediamo subito che i Radicali si sono sempre impegnati per dei non-valori o dei non-principi e, in questo senso, sono stati una forza distruttiva dei legami sociali naturali. Questa loro mobilitazione distruttiva non viene compensata dal fatto di trasmettere la cronaca dei lavori parlamentari, altro elemento puramente formalistico e unicamente procedurale, ossia privo di contenuti. Supporre che la democrazia sia tale per le procedure e per la partecipazione, indipendentemente dai contenuti di bene o di male, è una concezione che nulla ha a che fare con la visione della Dottrina sociale della Chiesa, per la quale invece la democrazia sta o crolla per i contenuti di cui si pone a servizio.
Anche ammettendo che Radio Radicale favorisca il confronto e sia di una qualche utilità (ammissione in realtà difficile da sostenere, ma procediamo per assurdo) trasmettere le cronache parlamentari bisogna onestamente riconoscere che, quanto ai contenuti portati avanti, Radio Radicale rappresenta un attore negativo. Dal punto di vista morale, l’aiuto finanziario che lo Stato concede a Radio Radicale con la copertura del suo presunto “servizio pubblico”, fornisce le risorse ad una emittente e ad un ambito politico che propone leggi contrarie al bene dell’uomo e della famiglia. Siccome non è mai lecito fare il bene tramite il male, non è ammissibile avere il bene (presunto) delle cronache parlamentari tramite il male (certo) di finanziare un ambito politico distruttivo del diritto alla vita e della famiglia.
Questo deve essere considerato anche da quanti sono disposti ad appoggiare il mantenimento del servizio pubblico a Radio Radicale pur non concordando con la sua ideologia, per il fatto che questa ha dato (pluralisticamente) voce anche alle loro voci, che altrimenti non sarebbero emerse. Anche in questo caso c’è un fraintendimento del bene comune: l’importante è che anche la mia voce ci sia (aspetto procedurale), anche se poi i contenuti ne risentono. Ma il bene comune non è un palcoscenico in cui ci devono essere tutte le voci. Se Radio Radicale prende i soldi dallo Stato per dare voce anche alla mia voce, e così facendo rafforza la presenza della sua ideologia negativa, vuol dire che strumentalizza sia lo Stato che me. Se proponessimo che l’Associazione Giovanni XXIII di don Benzi trasmettesse le cronache parlamentari a fronte del lauto compenso statale lucrato da Radio Radicale, i radicali sarebbero d’accordo?
Oltre a non comprendere bene il concetto del bene comune, i sostenitori del finanziamento a Radio Radicale non comprendono bene nemmeno il principio di sussidiarietà. Essi vogliono il pluralismo e fanno coincidere il bene pubblico con il pluralismo delle idee, assegnando allo Stato il compito (sussidiario, secondo loro) di finanziare i vari soggetti dell’informazione per garantire appunto il pluralismo. Ma i soldi destinati a quei soggetti sono tolti ad altri soggetti, i soldi destinati a quelle cause sono tolti ad altre cause e a decidere è lo Stato. Che sussidiarietà è mai questa? Una sussidiarietà che parte dallo Stato non è tale, deve partire dal basso.
Una sussidiarietà che prescinde dai contenuti e si limita ad ampliare l’arena delle opinioni è solo formale e non sostanziale. Una sussidiarietà che finanzia qualcuno perché parli e faccia parlare altri è irresponsabile: il riconoscimento del legittimo protagonismo dei corpi intermedi anche in campo informativo non può trascurare i contenuti dell’informazione oltre all’informazione stessa. Da questo punto di vista tutto il finanziamento pubblico alla stampa – e non solo a Radio Radicale – è da rifiutare come è da rifiutare il servizio pubblico statale tramite la RAI.
I soldi vanno sempre e solo ai più grossi, impediscono il ricambio sussidiario e la nascita di nuovi soggetti, sotto le sembianze di un pluralismo alimentano un sistema massmediale di sistema di cui fa parte anche Radio Radicale nonostante il suo studiato anticonformismo. Un sistema talmente potente, intrecciato, radicato, connivente che, dopo mesi di nuovo governo, la RAI sta facendo ancora il tifo per il sistema perdente alle ultime elezioni. Con l’aiuto di Radio Radicale.
I soldi dello Stato a Radio radicale devono cessare. E non solo quelli a Radio Radicale.