Questa guerra è la sconfitta del realismo politico occidentale
Con l'invasione dell'Ucraina la Russia di Putin ha valicato un confine che la conduce verso la rottura totale con l'Occidente. Ma se in Occidente sopravvive un minimo di razionalità politica questa dovrebbe essere impiegata per uscire subito da una logica di contrapposizione frontale in favore della mediazione. Ecco perché...
Con l'invasione dell'Ucraina la Russia di Putin ha valicato un confine che la conduce verso la rottura totale con l'Occidente, e la costringe ad essere fatalmente risucchiata in un asse euroasiatico con la Cina dalla quale ha alla lunga tutto da perdere, in quanto in esso non può che svolgere un ruolo di vassalla. E' la fine di una lunga stagione in cui il paese, dopo l'assestamento seguito alla fine dell'Urss, ha tentato di trovare un equilibrio tra l'inserimento nell'economia globalizzata e il mantenimento di un suo status di potenza imperiale, per quanto su scala ridotta rispetto al passato.
Ma questa frattura politica, militare ed economica sempre più radicale rappresenta un danno enorme anche per l'Occidente e per le ragioni delle democrazie liberali. Ed è il risultato di un clamoroso fallimento della politica statunitense, ma anche europea, nei confronti della Russia negli ultimi trent'anni. Un fallimento che si fonda sull'incapacità, mostrata dalle classi politiche occidentali, di comprendere le sfide di un mondo in cui l'Occidente non è più, e forse non potrà mai più essere, il protagonista incontrastato.
Cosa fare con la Russia? Questa la questione che gli statunitensi e i loro alleati non hanno mai affrontato organicamente ed esaustivamente dopo la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell'Unione Sovietica.
Negli anni Novanta, contrassegnati dalla convinzione generalizzata che il mondo fosse divenuto unipolare e si andasse ineluttabilmente occidentalizzando, le loro classi dirigenti hanno considerato la Russia di Eltsin come un paese in turbolenta transizione verso l'economia di mercato, non più pericoloso né potenziale antagonista sul piano militare e strategico, nonostante rimanesse la seconda potenza nucleare e il secondo esercito del mondo.
In tale contesto, l'allargamento della Nato con l'adesione di molti paesi ex “satelliti” o membri dell'Urss – spinta proprio dall'esperienza che quei paesi avevano fatto in passato dell'imperialismo russo e sovietico, e dalla loro volontà di proteggersi in futuro contro di esso - apparve come un fatto naturale, non suscettibile di creare problemi nelle relazioni con Mosca. Che intanto veniva ammessa nel sistema della governance globale con l'allargamento del G7 in G8 e con le trattative per l'ingresso nel Wto, e veniva attratta nell'area della Nato con il suo coinvolgimento nel Partenariato per la pace dell'alleanza (1994) e con la fondazione del Consiglio Nato-Russia nel 2002.
Ma intanto qualcosa era cambiato con l'avvento al potere di Vladimir Putin, e gli occidentali non colsero il significato di quel cambiamento. Dopo una fase di disordine ma anche di disgregazione, la Russia cominciava un processo di ricompattamento del potere e di accentramento statalista, e cercava di ritrovare un ruolo di potenza mondiale nel solco della sua secolare tradizione imperiale. Il consolidamento di relazioni politiche ed economiche con essa avrebbe dovuto implicare, per gli Stati Uniti e i suoi alleati, la capacità di ripensare tutto il sistema della sicurezza e delle alleanze euro-occidentali, abbandonando l'idea di un necessario globalismo “occidentecentrico” e tenendo invece nel dovuto conto tanto le leggi della geopolitica quanto il pluralismo inevitabile tra le civiltà che qualche anno prima Samuel Huntingon aveva eloquentemente illustrato.
Davanti alle sfide diverse portate dall'integralismo islamico e dal modello politico ed economico cinese l'interesse occidentale sarebbe stato quello di superare la vecchia impostazione della Nato in favore di una “costellazione” di alleanze con soggetti plurimi, dalla Russia all'area indo-pacifica. Ciò significava, per quanto riguarda l'Europa dell'Est, garantire sia la sicurezza degli Stati ex satelliti che lo status di Mosca come potenza euroasiatica, ridefinendo aree di influenza, convergenze e obiettivi comuni.
Ma gli Stati Uniti - con le amministrazioni Clinton, Bush jr. e Obama - andarono in una direzione opposta. Da un lato spalancarono le porte all'ascesa di Pechino con l'ammissione della Cina nel Wto nel 2000 e la creazione di un contesto globale ad essa estremamente favorevole. Dall'altro non tennero in conto le preoccupazioni geopolitiche russe, considerandole anzi come degli atti ostili in quanto tali. In Medio Oriente l'interventismo statunitense successivo all'11 settembre 2001, soprattutto a partire dal conflitto iracheno, portava la superpotenza americana a collidere in molti casi con le posizioni di Mosca.
Intanto, nello scacchiere est-europeo come in quello caucasico il processo di ampliamento della Nato o il rapido avvicinamento di Stati ex sovietici all'Occidente alimentavano nei russi un risveglio della sindrome da accerchiamento, che provocava loro reazioni sempre più decise. I conflitti innescati dalla Russia in Georgia (Ossezia del Sud, Abkazia) e in Ucraina – in una lunga sequenza che va dal 2004 agli ultimi sviluppi – sono stati i casi più eclatanti della reazione imperialista di Mosca, rispetto alla quale l'atteggiamento statunitense e occidentale è stato il crescente isolamento imposto a quest'ultima, e il suo declassamento da potenziale alleato a quasi-nemico: culminato con le sanzioni ad essa imposte a partire dalla sua annessione della Crimea nel 2014.
L'unico leader occidentale che nell'ultimo ventennio ha percepito i pericoli di questa progressiva degenerazione della fiducia e delle relazioni tra Occidente e Russia è stato Donald Trump, che ha sempre sostenuto, nella sua visione realista e bilateralista della politica estera statunitense, la necessità di un riavvicinamento tra le due parti in funzione anti-cinese, e in virtù di un più alto grado di possibile compatibilità. Ma nel suo mandato presidenziale gli è stato impossibile portare avanti questa strategia per l'opposizione di quasi tutta la classe dirigente del suo paese, così come degli apparati statuali e militari. La sua mancata rielezione, e il ritorno al potere dei democratici con Biden, ha alimentato la nuova escalation di tensione con Mosca culminata ora nell'invasione russa dell'Ucraina, così come il riavvicinamento sempre più stretto tra Mosca e Pechino.
In questo momento ogni possibilità di riannodare i fili del dialogo sembra pregiudicata, e l'Europa diventa il teatro di uno showdown che inevitabilmente rimetterà in discussione l'assetto del continente, con risvolti imprevedibili. Ma se in Occidente sopravvive un minimo di razionalità politica questa dovrebbe essere impiegata per uscire subito da una logica di contrapposizione frontale, che richiama a divisioni ideologiche oggi tramontate, per riaprire realisticamente e con prudenza, senza abdicare ai suoi princìpi di libertà e democrazia, spazi di mediazione fondati sulle garanzie minime della reciproca sicurezza tra le parti.