AUTORI DEL '900
Quell'umorista di Guareschi
Dietro la verve ironica del papà di Don Camillo e Peppone c'è la certezza di un destino buono.
Cultura
31_03_2012
Giovannino Guareschi (1908-1968) è tra i grandi del Novecento che «al genio artistico personale hanno coniugato un profondo radicamento nella loro terra, in un tessuto connettivo sociale cristiano», come Eugenio Corti e Giovanni Papini (Paolo Gulisano). L’avventura di Guareschi come scrittore nasce all’interno del mondo della cronaca come lui stesso sottolinea: «Io da giovane facevo il cronista in un giornale e andavo in giro tutto il giorno in bicicletta per trovare dei fatti da raccontare. Poi conobbi una ragazza, e allora passavo le giornate pensando a come si sarebbe comportata quella ragazza se io fossi diventato imperatore del Messico o se fossi morto. E, alla sera, riempivo la mia pagina inventando fatti di cronaca, e questi fatti piacevano parecchio alla gente perché erano molto più verosimili di quelli veri».
Sono parole che richiamano, fatti i debiti distinguo, quelle che un grande della letteratura come Pirandello antepone come postfazione all’edizione del 1921 de Il fu Mattia Pascal intitolando il capitoletto «Avvertenza sugli scrupoli della fantasia». Anche lo scrittore siciliano afferma che la letteratura è spesso più verosimile della realtà e la realtà è, talvolta, più inverosimile della letteratura. Il paragone tra Pirandello e Guareschi non si riduce alla loro inesauribile fantasia. Se il primo è convinto che la vita sia un flusso continuo che l’uomo cerca invano di fissare in una forma che si possa capire e analizzare (perché il mistero della vita e dell’uomo è irriducibile e insondabile), il secondo dal flusso continuo del Po raccoglie storie che sono già accadute o che prima o poi accadranno. Entrambi, comunque, adottano la modalità dell’umorismo che abbraccia, accoglie, sa comprendere il limite e l’errore proprio e altrui. Sull’umorismo di Guareschi ha ben scritto Walter Muto nell’ottimo libro Guareschi. L’umorismo e la speranza (Marietti).
L’umorismo, così come tutte le cose, non andrebbe definito, spiega Guareschi in Ritorno alla base. Esso è un modo di guardare la vita e la realtà, «dando ai fatti e alle sensazioni il valore effettivo che essi hanno, non il valore occasionale che assumono nel momento in cui si verificano a causa del particolare stato di cose e del particolare stato d’animo». Così, Guareschi adduce l’esempio di un incidente, che viene trattato dall’uomo privo di umorismo come un cataclisma, mentre chi è dotato di umorismo lo vede serenamente e vi trova «il lato divertente della vicenda». Guareschi scrive: «Oh, se ognuno rispettasse gli errori del prossimo suo come rispetta gli errori di se stesso! […] Ma gli uomini sono troppo buoni, sono troppo onesti. Gli uomini sentono troppo il bisogno di emendare gli errori altrui e di spingere gli altri verso la via del bene!». E ancora in Italia provvisoria. Album di ricordi del dopoguerra italiano Guareschi scrive: «L’umorismo è il nemico dichiarato della retorica, […] presenta una guerra atta a non eccitare gli animi ma a incitare i cervelli al ragionamento».
La scrittura di Guareschi è accessibile a chiunque. Con tono piacevole e autoironico Guareschi ricorda: «Io, nel mio vocabolario, avrò sì e no duecento parole, e son le stesse che usavo per raccontare l’avventura del vecchio travolto da un ciclista o quella della massaia che, sbucciando le patate, ci rimetteva un polpastrello. Quindi niente letteratura o altra mercanzia del genere: in questo libro io sono quel cronista di giornale e mi limito a raccontare dei fatti di cronaca. Roba inventata e perciò tanto verosimile che mi è successo un sacco di volte di scrivere una storia e di vederla, dopo un paio di mesi, ripetersi nella realtà». Lo stesso don Camillo si fa portavoce di questa semplicità espressiva (che è il mezzo per arrivare a comunicare con tutti) quando risponde a un pretino che gli chiede se sappia cosa ha detto il Concilio: «Ma è roba troppo difficile per me. Io non posso andare più in là di Cristo: Cristo parlava in modo semplice, chiaro […]. Non usava parole difficili, ma solo le umili e facili parole che tutti conoscono.[…] Io capisco solo i fatti […]. Milioni di persone non hanno più fede religiosa».
Perché Guareschi scrive? Qual è l’urgenza che sente dentro e che lo induce a riempire la pagina bianca con l’inchiostro? Per lui la scrittura è racconto di storie, di storie ordinarie, ma possono capitare in mezzo a queste storie ordinarie cose che altrove non succedono. Guareschi spiega: «Bisogna rendersi conto che, in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte, possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un’aria speciale che va bene per i vivi e per i morti». Un cristianesimo incarnato è quello che racconta Guareschi, in un pezzo di terra bagnato dal Po, in un arco di tempo nel Secondo dopoguerra, tra gente comune, partiti politici, una chiesa. Solo così si può capire meglio la vicenda di don Camillo e di Peppone e «non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la testa ad un altro, ma onestamente, però: cioè senza odio. E che i due nemici si trovino, alla fine, d’accordo nelle cose essenziali». Bisogna avere ancora un retroterra culturale comune, un bagaglio di valori, un punto di riferimento a cui guardare, bisogna avere a cuore il bene mio e dell’altro, pur negli interessi di parte, nella partigianeria che sbaglia. Solo così, avendo a cuore il bene di tutti, si può ripartire, anche e soprattutto dal proprio male e dal proprio quotidiano. C’è, però, una coscienza sottesa a questo modo di guardare e concepire la realtà, la coscienza che tra me e te, che siamo nemici, c’è sempre e comunque una terza persona: Cristo. Come lo dice bene Guareschi quando introduce: «In queste storie parla spesso il Cristo Crocifisso. Perché i personaggi principali sono tre: il prete don Camillo, il comunista Peppone e il cristo Crocifisso».
Quante storie ci ha raccontato Guareschi, rese immortali non solo dalle sue pagine, ma anche dalla resa cinematografica che vede gli attori Fernandel e Gino Cervi rivestire i panni di don Camillo e Peppone. «La trasposizione cinematografica ha in gran parte tradito lo spirito originario dei racconti, tanto da suscitare a suo tempo le proteste dello stesso Guareschi nei confronti dei registi e degli sceneggiatori, stemperando spesso in un tiepido irenismo quello che era un confronto onesto, leale, ma anche duro e serrato tra le ragioni dell’umanità, del buon senso, e quelle dell’ideologia, che avvelenava (e avvelena) i cuori e le menti» annota Paolo Gulisano.
Nel «mondo piccolo» di Brescello c’è tutto il mondo, con la sua umanità. Microcosmo e macrocosmo si uniscono: nella storia del singolo si rivive la storia dell’umanità, così come nelle vicende di un piccolo paese sono riflesse le storie più gravi e tragiche che il mondo intero ha vissuto. Scrive poco tempo prima di morire Guareschi: «Questa favola vera vuol esser un po’ la storia degli ultimi vent’anni di vita politica italiana. La storia del Paese riflessa nella cronaca del paese. […] È la versione, in tono minore e sorridente, di fatti importanti che, ridotti qui all’essenza e rivissuti da uomini che ancora odono la voce della coscienza, si spogliano della loro drammaticità e rinverdiscono la speranza in un mondo migliore».
Questo è il segreto della carica entusiastica che trasmette la lettura delle storie di Brescello, questa è la ragione ultima che muove il racconto come quell’acqua del fiume che passa solo per pochi istanti per il paese, ma che è destinato a finire nel mare. La certezza di un destino buono destinato a tutti noi anima chi scrive e pervade la «favola vera raccontata».