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ORA DI DOTTRINA / 59 - LA TRASCRIZIONE

Proprietà privata e destinazione universale dei beni - Il testo del video

Il settimo comandamento "Non rubare" implica che ci sia un diritto di proprietà. Questo è un principio intimamente legato a quello della destinazione universale dei beni, e questo a sua volta è connesso al diritto alla famiglia e al diritto al lavoro. Falsa l'impostazione che vede questi princìpi come in competizione.

Catechismo 05_03_2023

Continuiamo il nostro percorso nei Dieci comandamenti e oggi iniziamo il Settimo, che è abbastanza breve nella sua formulazione: «Non rubare». Ma a ben vedere, dietro questo comandamento c’è veramente un mondo, che adesso cerchiamo di esplorare. Il comando di non rubare implica che c’è qualcosa che appartiene a qualcuno e che non gli può essere ingiustamente tolto e, dunque, implica un diritto di proprietà.

La Chiesa ha sempre affermato e difeso il diritto di proprietà e l’ha coordinato - come vediamo nel Catechismo - al cosiddetto “principio della destinazione universale dei beni”. Sono due principi fondamentali: cerchiamo di capire cosa significano e come si correlano, anche perché c’è abbastanza confusione su questo aspetto: non solo confusione di pensiero, ma con la storia del XIX e XX secolo, e anche quella odierna, c’è una polarizzazione di posizioni, che si traducono poi in sistemi politici, che assolutizzano una polarità a discapito di un’altra; per esempio, trattando la questione della destinazione universale dei beni come se fosse un principio che può arrivare in qualche modo a togliere il diritto di proprietà, in funzione di un presunto bene comune; oppure, dall’altra parte, un principio di proprietà privata talmente assolutizzato da sganciarlo dal bene comune, un principio liberista che perde di vista appunto la destinazione propria e l’origine propria del diritto di proprietà.

Nell’articolo sul Settimo comandamento, il Catechismo dedica la prima sezione proprio a questo tema, cioè la destinazione universale e la proprietà privata dei beni. Il Catechismo affronta qui il tema passo passo e parte da quello che è il principio fondativo, ossia da un dato piuttosto evidente, un dato di rivelazione: Dio ha dato all’uomo - siamo ai primissimi capitoli del libro della Genesi, alle fondamenta - i beni della Creazione. Dio non ha creato i beni per Sé stesso, anche se il primo senso della Creazione non è l’uso che ne fa l’uomo, ma è il riverbero della gloria di Dio nella Creazione. Questi beni creati Dio li ha donati all’uomo perché attraverso di essi potesse sostenersi, li potesse lavorare, trasformare.

La Genesi - come gli altri testi biblici - non è un trattato di Dottrina sociale della Chiesa, e nemmeno un catechismo e, quindi, ci restituisce questi concetti in poche parole. La parola fondamentale che troviamo nel libro della Genesi è che l’uomo domini [il creato], cioè sia il dominus, il signore; che non ha nulla a che vedere con quell’idea strampalata che oggi abbiamo del dominio, che viene sempre necessariamente visto come un’usurpazione: invece, essere dominus non significa di per sé questo, anzi dovrebbe essere proprio il contrario. In questo senso, Dio ha dato all’uomo e alla sua discendenza i beni della Creazione: questo è il principio basilare di quella che oggi chiamiamo destinazione universale dei beni, che appunto si fonda sulla volontà, sull’atto di Dio che affida all’uomo - ad Adamo ed Eva e alla loro discendenza - i beni della terra, i beni della Creazione. In questo senso, possiamo dire che la destinazione universale dei beni è un aspetto primario e fondativo.

Vediamo qual è il passaggio fondamentale. Dio non dice solo ad Adamo che può servirsi di questi beni e che deve essere il dominus della Creazione, ma gli dice anche di popolare la terra e, in funzione di questo popolamento, di dominarla, cioè attingere dalla Creazione ciò che gli serve per la vita. Da qui la licenza che Dio dà ad Adamo ed Eva di mangiare dei frutti di ogni albero, eccetto il famoso frutto dell’albero del bene e del male. Che cosa significa questo? Nel racconto biblico sorgono tre elementi importanti, che verranno poi esplicitati dalla Dottrina sociale della Chiesa, e cioè:

1) abbiamo una destinazione universale dei beni, che è connessa ad altri due aspetti, ossia

2) il diritto alla famiglia (popolare la terra)

3) il diritto alla proprietà o, meglio, il diritto al lavoro, cioè il diritto di poter dominare la terra, di lavorarla, di applicare la propria intelligenza, l’ingegno per trasformare-ricavare gli stessi beni che Dio dà all’uomo.

Qui rientra tutto quello che oggi va sotto la categoria del lavoro (a questo tema del lavoro, Giovanni Paolo II ha dato un grande contributo nelle sue encicliche e nei suoi discorsi). Quello che a noi interessa ora capire è l’intreccio tra la destinazione universale dei beni, il diritto alla famiglia, il diritto al lavoro e il diritto alla proprietà privata.

Ci è da guida l’enciclica per certi versi fondativa della Dottrina sociale della Chiesa su queste tematiche in particolare, ovvero la Rerum Novarum (15 maggio 1891), un’enciclica di papa Leone XIII. Citiamo qui l’edizione bilingue pubblicata dai Dehoniani. Se prendiamo il numero 875 - che corrisponde al secondo capitolo della Rerum Novarum, dedicato alla proprietà privata e al diritto naturale - troviamo il seguente ragionamento: la proprietà privata è di diritto naturale, come derivante dal lavoro.

Afferma l’enciclica: «Questa è un’altra prova che la proprietà privata è conforme alla natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana, la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione: che l’uomo lo coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura e in cui lasciò come impressa un’impronta della sua personalità, sicché giustamente può tenerla per sua e imporre agli altri l’obbligo di rispettarla».

Qui si dice qualcosa che riprenderemo più esplicitamente con l’enciclica Centesimus Annus (1991): l’uomo, quando lavora la terra (dove per terra intendiamo i beni della Creazione), vi aggiunge qualcosa di proprio. Leone XIII ci dice che la terra dà il suo frutto a una condizione, cioè «che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure»; è un’esperienza comune. Questo vuol dire che il lavoro è un elemento fondamentale. Ora, il lavoro è ciò che è proprio dell’uomo ed ecco perché l’uomo, aggiungendo il proprio lavoro, in qualche modo, come dice Leone XIII, «lascia un’impronta  della sua personalità, sicché giustamente può tenerla per sua e imporre agli altri l’obbligo di rispettarla».

Giovanni Paolo II, nella Centesimus Annus, che si chiama così perché commemora il centenario della Rerum Novarum, riprende questo principio e lo spiega ancora meglio: «La terra non dona i suoi frutti senza una peculiare risposta dell'uomo al dono di Dio, cioè senza il lavoro: è mediante il lavoro che l'uomo, usando la sua intelligenza e la sua libertà, riesce a dominarla e ne fa la sua degna dimora. In tal modo egli fa propria una parte della terra, che appunto si è acquistata col lavoro. È qui l'origine della proprietà individuale» (CA 31). Quindi, non c’è un bene che passa direttamente all’uomo; c’è un bene che passa all’uomo tramite il suo lavoro. E questo tramite fa sì che la destinazione universale dei beni termini in una proprietà dell’individuo: questo è il passaggio da capire, è importante perché permette di sciogliere alcune problematiche e tensioni su questo tema.

Torniamo alla Rerum Novarum e, in particolare, al capitolo che si intitola «La proprietà privata è sancita dalle leggi umane e divine». Esso ci dice sostanzialmente che non riconoscere questo diritto (alla proprietà) è un’ingiustizia: «Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all'uomo l'uso del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà [dunque, l’uso sì, la proprietà no]. Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a defraudare l'uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo dissodato dalla mano e dall'arte del coltivatore non è più quello di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile fertile».

Attenzione, adesso, a come prosegue la Rerum Novarum: «Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti? Come l'effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora». Qui si parla di nuovo di terra, ma ovviamente riguarda tutto quello che ha a che fare con il lavoro, l’attività dell’uomo che in qualche modo trasforma, ricava. Qui Leone XIII ci dice che sottrarre all’uomo la proprietà dei frutti del suo lavoro equivale a defraudarlo: è un atto di ingiustizia.

Al numero 2402 del Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo riassunto quello che abbiamo detto. In particolare, si riesce a capire che il diritto alla proprietà privata nasce, scaturisce ed è, per certi versi, il punto di arrivo della destinazione universale dei beni. Quindi, è una falsa impostazione ritenere che queste due dimensioni - cioè la destinazione universale dei beni e il diritto alla proprietà privata - siano come due vasi comunicanti, quasi che per affermare la destinazione universale dei beni allora bisogna schiacciare il diritto alla proprietà privata, e viceversa. Questa è una falsa posizione, perché perde di vista il contesto che abbiamo presentato. In particolare, possiamo dire che lo stesso diritto alla proprietà privata ha carattere sociale, è ordinato al bene comune, esso stesso è un bene comune. E, per converso, il bene comune esige il rispetto della proprietà privata.

Passiamo a questo punto a capire alcune affermazioni del Magistero, che adesso dovrebbero risultare più chiare.

1. Riprendiamo nuovamente la Rerum Novarum, al secondo capitolo, al paragrafo 872 dell’edizione dei Dehoniani. «Non v'è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l'uomo è anteriore allo Stato: quindi prima che si formasse la società civile egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso». Dunque, c’è un’anteriorità del diritto di proprietà allo Stato. Questo si coordina con il n. 2406 del Catechismo, che dice: «L’autorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio del diritto di proprietà in funzione del bene comune». Lo Stato non fonda il diritto alla proprietà, lo deve riconoscere e regolare, non lo può in alcun modo calpestare o conculcare, perché appunto il diritto dell’uomo a lavorare, e quindi a tenere il frutto del proprio lavoro, è antecedente alla formazione della società civile, dello Stato.

2. Un secondo passaggio fondamentale lo troviamo al quarto capitolo dell’enciclica di Leone XIII, al n. 880 dell’edizione segnalata, che ci dice che il bene dell’individuo, della sua famiglia, degli eventuali dipendenti e collaboratori, è parte del bene comune. In sostanza, questo numero ci dice che il diritto alla proprietà privata va applicato non soltanto all’uomo come individuo, ma anche all’uomo come capofamiglia. Afferma il Papa: «Ora, quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all'individuo va applicato all'uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e completa è nel consorzio domestico la sua personalità. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole». Quindi Leone XIII ci dice che il diritto ai beni, alla proprietà, è anche connesso - come abbiamo accennato a proposito del testo della Genesi - al diritto di famiglia, che corrisponde al comando di Dio di popolare la terra.

3. Andiamo al terzo aspetto, quello su cui oggi c’è più confusione. La proprietà privata, come ci viene detto dal Magistero, non è un diritto assoluto. Cosa vuol dire assoluto? Assoluto vuol dire sciolto da ogni altro principio; e, in effetti, per quanto detto, questo è chiaro: il diritto alla proprietà non è assoluto, non è sciolto, ma è derivato, si lega ad altri principi, cioè al principio della destinazione universale dei beni, al diritto al lavoro, al diritto alla famiglia. Tutti giustamente devono poter accedere ai beni per poterli lavorare e, tramite il lavoro, avere una proprietà. Non c’è una contraddizione tra questi principi.

Quindi, è vero che il diritto alla proprietà privata non è assoluto, ma se lo intendiamo in questo senso; è un principio derivato, che non significa che sia un principio opzionale o che possa essere conculcato o sia secondario, cioè di scarsa importanza: questo non c’è nei documenti del Magistero. C’è invece l’affermazione della non assolutezza e della derivazione di questo principio, ma ciò, ripeto, non vuol dire che questo principio possa essere calpestato, negato, oppure magari affermato teoricamente, ma svuotato di contenuto reale. Significa che non è sciolto da altri princìpi, da altri diritti, ma è connesso secondo l’ordine che esiste tra ciò che è derivato e ciò da cui deriva. Nasce infatti dalla destinazione universale dei beni, dal diritto al lavoro e dal diritto alla famiglia.

Dunque, questa è la prima parte del Catechismo sull’argomento, che si trova nei nn. 2402-2406. È solo per un cortocircuito ideologico degli ultimi secoli, che ha portato alla contrapposizione di due ideologie, che noi ancora oggi siamo qui a pensare che la logica del diritto alla proprietà e della destinazione universale dei beni sia una logica dei vasi comunicanti: non è così, non è mai stato così, e dovremmo liberarci da questi elementi ideologici che sono ancora fortemente presenti e aggressivi, per cui si pensa, per esempio, a un diritto di proprietà come se fosse un elemento assoluto tale da calpestare il diritto di altri di avere delle proprietà e di poter lavorare.

Il diritto al lavoro è un tema attuale, visto che, nonostante rivendicazioni più o meno sensate di un mondo sindacalista e non solo, quando siamo arrivati al punto di privare delle persone del loro lavoro, per ragioni che tutti sappiamo, nessuno ha battuto ciglio. Questo è un diritto reale, un diritto di natura, basato sull’ordine di Dio stesso. E a questo è legato il diritto di proprietà. Bisogna stare molto attenti perché, quando si conculca il diritto al lavoro, si conculca anche il diritto di proprietà e lo si fa mascherandosi dietro la destinazione universale dei beni, che poi all’atto pratico si traduce invece, per così dire, in un’enorme proprietà privata di pochi.

Dall’altra parte, bisogna ricordarsi sempre che la proprietà privata è la “modalità di traduzione” della destinazione universale dei beni, cioè ciascuno se ne appropria tramite il proprio lavoro. È chiaro che è compito dell’autorità politica quello di vigilare affinché il diritto di uno non vada a detrimento del diritto dell’altro e non ci sia una concentrazione di  beni nelle mani di pochi, con tutti gli altri che ne rimangono privati, senza poter avere accesso a questi beni.

La prossima volta proseguiamo con il commento del Catechismo al Settimo comandamento, entrando un po’ più nello specifico del non rubare. Ma questa premessa (su destinazione universale dei beni e proprietà privata) era importante e giustamente il Catechismo la fa: non si capisce perché non si deve rubare, se non si capisce quali principi e diritti naturali vi siano a monte.