Processo Charlie Hebdo, due fondamentalismi a confronto
A oltre 5 anni dal massacro jihadista nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, si è aperto a Parigi il maxi-processo contro 14 imputati islamisti. Nessuna giustificazione per il terrorismo islamista, né è accettabile il tentativo di derubricare la strage a «eccesso di legittima difesa». Ma di fronte ai terroristi sta uno Stato, il cui presidente Macron rivendica con orgoglio il diritto alla blasfemia, che non può essere spacciata per libertà d'espressione. È una «libertà senza verità» che degenera inevitabilmente in fanatismo laicista.
- E IN ITALIA SI LASCIANO CRESCERE I FRATELLI MUSULMANI, di Souad Sbai
Per omaggiare l'inizio del processo ai terroristi dell'attentato islamico del 2015 al giornale satirico, Charlie Hebdo ha ripubblicato i "Mohammed Cartoons" con il titolo "Tout ça pour ça" (Tutto questo per questo). "Non chineremo mai la testa", hanno detto. Cinque anni e otto mesi dopo la strage da parte dei coranisti a colpi di fucile mitragliatore AK-47, inizia il processo che è già nella storia di Francia. L'attenzione morbosa non poteva essere risparmiata. Iniziato il 2 settembre, dovrebbe durare fino al 10 novembre, giorno della sentenza. Più di due mesi, una durata del genere non ha precedenti in materia di terrorismo. Ma è storico soprattutto perché sono in ballo i concetti di libertà di espressione e di laicità dello Stato.
Chérif Kouachi, Saïd Kouachi, Amedy Coulibaly, i terroristi islamici che si sono intestati la strage mettendo mano ai kalashnikov, sono stati uccisi, ma ci sono quattordici imputati - di cui tre assenti e che non si sa dove siano o se sono morti -, che rischiano tra dieci anni di prigione e l'ergastolo. Hayat Boumeddiene, Mohamed Belhoucine e Mehdi Belhoucine sono stati destinatari di un mandato di cattura dal settembre 2018, e saranno processati in contumacia.
Ma che sia un processo sui generis lo dicono i numeri: due rappresentanti della procura nazionale antiterrorismo, cinque giudici, quattordici esperti, novantaquattro avvocati, centoquarantaquattro testimoni citati, settanta media accreditati e quasi duecento parti civili. Tra queste c'è la nota giornalista Zineb El Rhazoui, ex penna di Charlie Hebdo, da tempo sotto scorta per essere vittima di una fatwa che la condanna a morte, che pochi giorni fa raccontava in un'intervista quel giorno vissuto da lontano. Era in Marocco, aveva da poco concordato un pezzo con Charb, il fumettista che di lì a poco perderà la vita. Quando l'eco di quel che accadde in quella giornata, che sembra lontanissima nella memoria, la raggiunse in Marocco, non si allarmò. Semplicemente pensò a uno scherzo. "Fino a quando ho sentito gli ululati di una bestia ferita. Erano le lacrime di Patrick Pelloux. Lì ho finalmente capito e sono crollata".
Vennero uccisi in diciassette, compreso il vignettista Charb. L'Occidente non parlò d'altro per un paio di settimane, in mezzo la sfilata dei primi ministri a Parigi che sgomitavano per la foto in prima fila e il retorico tripudio di Je suis Charlie che invase i social più che le piazze.
Nelle prossime settimane la Corte d'Assise speciale tornerà nel dettaglio sugli eventi di quel gennaio 2015. Poi verranno ascoltati diversi testimoni, investigatori ed esperti. Interrogati gli 11 imputati presenti, accusati di aver collaborato come complici all'organizzazione e all'attentato. Poi arriverà il momento dell'ultima fase del processo.
Il presidente della Republique, Macron, sempre per omaggiare l'inizio dello storico processo e la ripubblicazione delle caricature di Charlie Hebdo, ci ha tenuto a ribadire quella che è, per lui, "libertà di bestemmiare. E che è legata alla libertà di coscienza. Sono qui per proteggere tutte queste libertà". Questo spiega come il concetto di laicità sia malato: nulla giustifica stragi e massacri, ma l'offesa al sentimento religioso non è vera libertà e non favorisce certo la convivenza.
In Francia la ferita è ancora aperta. L'orrore è passato. Eppure quell'attentato, che non è stato né il primo né l'ultimo, ha colpito al cuore una repubblica fondata anche sulla libertà d'espressione. Il caso Charlie Hebdo da cinque anni a questa parte ha rimesso al centro uno dei suoi corollari: il diritto di prendere in giro le religioni e qualsiasi idea e credo, quello che Charb e la sua banda usavano ampiamente. Lo dimostra non le manifestazioni che seguirono quel 7 gennaio, ma l'attenzione che il processo sta avendo in queste ore. Non solo in Francia, ma in particolare lì.
Intanto durante la diretta del processo alcuni avvocati hanno allungato la lista dei colpevoli: "Se l'intelligence avesse fatto il suo dovere, oggi non saremmo qui". Considerato che i fratelli Chouaki e Amedy Coulibaly erano monitorati non hanno tutti i torti.
Per la politica e gli analisti francesi il processo Charlie è già un fallimento perché la critica all'islam è ormai un tabù, oltre che pericolosissima. E non possiamo dimenticare neanche il caso dell’anonima liceale Mila costretta a cambiare scuola e messa sotto scorta, per aver pesantemente criticato nel febbraio scorso l'islam durante una lite su instagram con un coetaneo musulmano. Con tanto di silenzio in ossequio all'islam, di femministe, associazioni Lgbt e sinistra europea. D'altronde la stampa francese si domanda: chi oggi pubblicherebbe una caricatura a Maometto? L'Europa, ma soprattutto la Francia, oggi convivono con la grave minaccia jihadista.
Ma va compreso che Charlie Hebdo non era impegnato in una "guerra contro i musulmani", ma contro la religione in senso lato difendendo il diritto alla provocazione e all'offesa. Ma si può questa definire libertà d'espressione? Certamente no, una libertà senza verità - come ricordava Benedetto XVI - è l'espressione di una ragione ridotta, ed è destinata a trasformarsi in fanatismo laicista. Che - ripetiamo - non giustifica in alcun modo una risposta terroristica o comunque violenta e tantomeno può diventare attenuante in modo da derubricare la strage di Charlie Hebdo come «eccesso di legittima difesa». È chiaro che per i fondamentalisti islamici l'offesa, la blasfemia è solo un pretesto per giustificare la violenza e la sopraffazione. Inoltre non si possono equiparare le offese a una legittima critica, in questo caso di Maometto o dell'islam in generale. Cosa quest'ultima che ormai viene generalmente evitata per timore della propria incolumità.