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l'inchiesta di bergamo

Processo al Covid, ma lockdown e politici sono già "salvi"

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L'inchiesta di Bergamo sui morti in Val Seriana solleva più di un interrogativo tanto che lo stesso procuratore ammette la difficoltà nel riconoscere il reato di epidemia colposa e dice: «Non accusiamo nessuno». La tesi che i morti si sarebbero potuti evitare è affidata ad un modello matematico di Crisanti, mentre è completamente assente ogni analisi sull'assenza di cure precoci, che si sono dimostrate vincenti sul campo. Gli stessi politici sotto indagine saranno però "riabilitati" grazie al lockdown successivo, unico imputato che non finirà alla sbarra. 
- VIDEO: UN'INDAGINE CHE NON CI PIACE, di Riccardo Cascioli

Attualità 03_03_2023

Arriveremo alla condanna dei politici che hanno gestito la prima fase della pandemia? Sortirà qualche effetto l’inchiesta covid che ieri la Procura di Bergamo ha concluso? A sentire il procuratore di Bergamo forse no, tanto che sembra quasi che sia lui il primo a non crederci. Dall’intervista di Antonio Chiappani all’inviato di Repubblica Paolo Berizzi, sembra piuttosto che il procuratore voglia mettere le mani avanti sull’esito finale. Non nel merito, per lo meno, ma almeno nelle finalità. Il giornalista, infatti, gli chiede qual è il senso vero di questa inchiesta e lui risponde che «è far sapere alla gente quello che è successo» come se un’inchiesta penale non dovesse individuare dei reati, ma solo mostrare alla popolazione un’informazione di eventi, una narrazione.  

Un’intervista “rinunciataria”, verrebbe da dire, nel corso della quale il capo della Procura di Bergamo riconosce che il reato di “epidemia colposa” ascritto ai due indagati eccellenti Giuseppe Conte e Attilio Fontana (Roberto Speranza non deve rispondere di questo reato) ha un problema di configurabilità a seguito di alcune pronunce della Cassazione a causa dell’interpretazione dell’articolo 438: risulterà difficile, infatti, accertare il nesso di causa-effetto tra la decisione di non istituire una zona rossa ad Alzano e Nembro e la morte di quasi 5.000 persone solo nella bergamasca.

Ad un certo punto, il sospetto che il procuratore abbia pochi elementi in mano per sostenere un’accusa viene anche al giornalista, che gli chiede se c’è il rischio che tutto possa risolversi «quasi a tarallucci e vino». Il procuratore allarga le braccia e ammette: «Magari qualcuno verrà prosciolto, qualche posizione verrà archiviata o magari i giudici riterranno che sull’epidemia colposa non si debba procedere». L’importante – per Chiappani - «è aver fatto il nostro dovere». E qual è? Ancora la narrazione: «Soddisfare la sete di verità della popolazione, noi non accusiamo nessuno, ma c’è stata una sottovalutazione del rischio dal punto di vista della gestione sanitaria». Dunque, una valutazione più politica, che non inquadra un reato di tipo oggettivo.

Curioso che una Procura, all’indomani della conclusione di un’indagine gigantesca (con oltre 50 indagati, tra i quali i vertici delle autorità sanitarie statali e lombarde, da Brusaferro a Rezza, da Galliera a Locatelli) si limiti a dire “noi non accusiamo nessuno”. Ma come? Non è forse il compito di una procura quello di sostenere la pubblica accusa?

UN MODELLO MATEMATICO COME ACCUSA
Bisognerà dunque dimostrare a processo - se ci sarà un processo - che Governo e Regione Lombardia non hanno fatto a sufficienza per fermare quella che poi sarebbe diventata l’ecatombe di Bergamo, con i carri dei militari in strada e gli ospedali sovraccaricati di pazienti. Per farlo, la Procura ha messo a punto “un’arma” precisa: una maxi-consulenza a cura di Andrea Crisanti, oggi senatore Pd, che si fonda fondamentalmente su un assunto matematico e difficilmente riscontrabile nella realtà: i pm si sono convinti dalle proiezioni matematiche del virologo che con l’istituzione di una zona rossa in Val Seriana già dal 27 febbraio ’20 si sarebbero potute evitare 4.148 morti (la zona rossa venne poi istituita per tutta la Lombardia e poi per l’Italia soltanto dieci giorni dopo, intorno al 9/10 marzo). Il modello matematico di Crisanti prosegue dicendo che se invece le chiusure fossero state il 3 marzo si sarebbero potuti evitare 2.659 decessi.

Difficile, dicevamo, dimostrare questa causalità. È il problema delle proiezioni matematiche a sostegno di decisioni politiche e ora di tesi giuridiche. Il problema era noto già nell’aprile del 2020 non solo in Italia, tanto che lo stesso governo inglese, che per decidere il lockdown si era basato su previsioni dell’Imperial College, era stato poi smentito dai ricercatori di Oxford i quali, utilizzando un altro tipo di calcolo matematico, arrivarono a risultati molto meno drammatici circa il contagio e la diffusione del virus. Questo, perché, come ricordava Stefano Magni proprio sulla Bussola «i modelli matematici sono uno strumento di lavoro, non sono un oracolo». Dunque, se la tesi della Procura si basa su un modello matematico, chi dice che questo modello non possa essere “corretto” da un altro modello? Non si è mai capito come si diffondesse il contagio, il quale è dipeso da mille fattori e variabili. Fare calcoli matematici avrebbe portato fuori strada. Ad esempio, con gli stessi calcoli matematici a Milano ci sarebbe dovuta essere una strage, ma così non è stato.

LOCKDOWN "ASSOLTI"
E chi dice che lo strumento più efficace per impedire la diffusione del virus
siano stati i lockdown, che subito dopo sono diventati lo strumento principale attraverso cui il governo ha sperato di fermare il covid? L’inchiesta, infatti, almeno stando alle indiscrezioni emerse in questi giorni, si fonda si un corollario e dà per scontato il presupposto che i lockdown e le misure di contenimento fermassero il virus, ma su questo aspetto sono emerse nuove prove che potrebbero smentire questa narrazione.

Ad esempio: i dati Gimbe evidenziarono fin da subito che i contagi avvenivano soprattutto nell’ambiente domestico, dove le persone sono state rinchiuse nei mesi di marzo e aprile, mentre le evidenze che arrivavano dalla Cina e che poi si sono ripetute anche con la cosidetta seconda ondata di ottobre-novembre, portavano a ritenere che la politica zero covid intrapresa con serrate e chiusure in realtà fosse un buco nell’acqua. E che dire degli studi comparativi che evidenziavano come i paesi più chiusuristi non fossero affatto i primi della classe in termini di blocco dei contagi?

I contagi sono andati in crescita anche nei lunghi mesi in cui tutta l’Italia era prigioniera e cantava sui balconi, i dieci giorni iniziali di sacrificio richiesto come periodo di incubazione per fermare il virus («torneremo ad abbracciarci» disse Conte) si rivelarono una pia illusione e il lockdown venne prorogato per due mesi. Sarà interessante capire come si farà a sostenere che una misura applicata localmente, in Val Seriana, avrebbe potuto funzionare quando non ha funzionato sulla vastissima scala del Paese intero.  

QUELLE CURE IGNORATE
C’è poi un aspetto che sembra ancora drammaticamente assente. Come in un film, negli stralci riportati, si passa dal contagio al ricovero in ospedale per polmonite come se in mezzo non ci fossero almeno dieci giorni di inerzia terapeutica. In quel mezzo, però, c’è stato l’abbandono terapeutico di migliaia di pazienti che si sono ritrovati poi in terapia intensiva perché non curati e affidati alla raccomandazione paracetamolo e vigile attesa. E se fosse questa la principale causa dei decessi, come migliaia di medici che curavano hanno poi dimostrato portando non modelli matematici, ma la solida evidenza della pratica medica a supporto?

Non è un caso che nel secondo filone di indagine, quello della mancata applicazione del piano pandemico risalente al 2006, non si faccia alcun cenno al tema delle cure domiciliari precoci, che potrebbe spiegare molto bene invece lo stacco tra il contagio e il decesso in ospedale. Ma questo non sembra essere un problema all’ordine del giorno neanche nell’inchiesta di Bergamo, dato che lo stesso piano pandemico licenziato poi dal governo Draghi non le inserisce nemmeno come prima strategia di attacco del virus.

L'impressione, allora, al di là del clamore suscitato dalla chiusura delle indagini e dagli indagati eccellenti, è che a Conte, Speranza, Fontana e agli altri venga imputato di non essere stati zelanti nel piccolo, come invece furono pochi giorni dopo nel grande, applicando le misure draconiane in tutt’Italia perché quella del lockdown, era l’unica strada percorribile.

Se anche qualcuno di loro dovesse essere ritenuto colpevole, poi, con lo stesso criterio, gli si dovrà riconoscere il merito di aver agito correttamente per la salvaguardia della salute del Paese intero perché in fondo, l’unico che non finirà sul banco degli imputati dell’inchiesta è il lockdown, assurto a dogmatico strumento di controllo sanitario, con ricadute pesantissime però sulla tenuta sociale, psicologica ed economica del Paese.