Un'altra Pasqua da reclusi. Ma non ci sono prove che il lockdown salvi vite
L’Italia è pronta per una nuova stagione di chiusure. Anche dopo la scadenza di questo ultimo decreto, il 6 aprile, se ne attende un altro che impone zone rosse e arancioni in tutte le regioni. La domanda sull’efficacia del lockdown pare non porsela proprio nessuno. Eppure un anno di esperienza in tutti i Paesi industrializzati del mondo parrebbe suggerire che non vi sia troppa differenza fra quegli Stati che hanno chiuso le loro popolazioni in casa e quelle che le hanno lasciate libere. Lo suggerisce anche uno studio comparato pubblicato a gennaio sullo European Journal of Clinical Investigation, totalmente ignorato dai nostri decisori.
L’Italia è pronta per una nuova stagione di chiusure. Anche dopo la scadenza di questo ultimo decreto, il 6 aprile, se ne attende un altro che impone zone rosse e arancioni in tutte le regioni. Unica eccezione le scuole che potrebbero riaprire dopo Pasqua, salvo contrordini e rispettando rigide condizioni, come il tampone per tutti nel primo giorno e poi uno alla settimana. La seconda Pasqua in casa è giustificata, secondo il governo Draghi e il nuovo Comitato Tecnico Scientifico, da un aumento dei contagi e da un nuovo rischio di sovraccarico degli ospedali. Ma alla luce dell’evidenza empirica di cui disponiamo, ricorrere al solito vecchio lockdown è una strategia intelligente per ridurre il contagio e liberare gli ospedali?
La domanda sull’efficacia del lockdown pare non porsela proprio nessuno. Si polemizza sui vaccini e sulla lentezza della campagna vaccinale. Mai sull'ordine di stare a casa. Si rischia di essere screditati anche solo ponendo la domanda. Perché ormai la chiusura è diventata una sorta di dogma laico. Se sei contro, sei automaticamente un untore, o quantomeno un negazionista irresponsabile. Eppure un anno di esperienza in tutti i Paesi industrializzati del mondo parrebbe suggerire che non vi sia troppa differenza fra quegli Stati che hanno chiuso le loro popolazioni in casa e quelle che le hanno lasciate libere. La Florida (quasi nessun lockdown) ha decisamente avuto meno morti di New York (lockdown rigido, all’italiana), giusto per confrontare due Stati nello stesso Paese (gli Usa), entrambi ad alta densità urbana. La Svezia, massacrata quotidianamente dai media per non aver implementato alcuna misura (neppure la mascherina obbligatoria) registra ancora testardamente meno vittime, in proporzione alla sua popolazione, rispetto a molti altri Paesi europei che hanno adottato politiche draconiane, quali Belgio, Regno Unito, Italia, Spagna e Francia. La Svezia è dunque la più permissiva di tutte, contrariamente a molte notizie fuorvianti, da ottobre ad oggi non ha ancora cambiato sostanzialmente la sua strategia, ma non è quella che mostra il più alto tasso di mortalità. E già solo questo dato dovrebbe far riflettere.
La questione è stata affrontata in modo sistematico a gennaio, da un gruppo di ricercatori: Eran Bendavid, Christopher Oh, Jay Bhattacharya e John Ioannidis. Il loro studio, pubblicato sullo European Journal of Clinical Investigation ben tre mesi fa, riguarda esattamente la comparazione fra le nazioni che hanno adottato misure rigide di lockdown e altre che ne hanno adottate di più blande. Risultato: praticamente non c’è alcuna differenza, in termini di riduzione dei contagi, fra i Paesi che hanno adottato politiche di lockdown e altri che non lo hanno fatto. In particolare, i ricercatori, il cui lavoro è stato sponsorizzato dall’Università di Stanford, comparano otto Stati con rigide misure anti-epidemia (Regno Unito, Olanda, Francia, Spagna, Italia, Germania, Iran, Stati Uniti, intesi nel loro complesso, anche se abbiamo visto che le differenze da Stato a Stato sono notevoli) e due che non hanno mai adottato il lockdown, almeno fino a gennaio scorso: Svezia e Corea del Sud.
Lo studio individua una riduzione significativa nella diffusione dei contagi dal momento in cui sono state applicate misure non mediche (Npi, l’acronimo inglese) per contrastare il dilagare dell’epidemia. Gli studi precedenti, normalmente, si fermano qui: dal momento in cui interviene il governo si riducono i contagi, quindi il lockdown funziona. Fine della discussione. E invece no: la differenza che viene fatta successivamente, in questo studio, è fra gli Stati che si sono limitati a vietare assembramenti e dare linee guida per il distanziamento, come Svezia e Corea del Sud, appunto, e quelli, invece, che hanno applicato un lockdown vero e proprio, incluso l’ordine di restare a casa, come l’Italia e gli altri sette casi studio. Ebbene, misurando il tasso di crescita quotidiano dei contagi, non solo non si notano differenze significative, ma (tranne l’unico caso dell’Iran... ma c'è da fidarsi dei suoi dati?) gli Stati lockdownisti vanno peggio di quelli aperturisti. Per esempio, nel Regno Unito si registra un tasso di crescita quotidiano dei contagi che è dello 0,16 in più rispetto alla Svezia e dello 0,23 in più rispetto alla Corea del Sud. In Italia, uno 0,03 in più rispetto alla Svezia e uno 0,08 in più rispetto alla Corea del Sud. Quindi va leggermente peggio da noi che da loro.
Ma si parla sempre, comunque, di differenze minime. L’unica conclusione che si può trarre da questo studio comparato è che non vi siano prove per dimostrare che il lockdown salvi vite più di altre strategie anti-Covid. Di più: lo studio rileva anche una riduzione del tasso di crescita dei contagi anche prima che venissero applicate misure Npi. Quindi prima ancora che gli Stati dessero l’ordine di restare a casa, o di evitare assembramenti, la società, di sua sponte, solo per il rischio percepito, aveva già cambiato il comportamento e ridotto il tasso di crescita dei contagi. E questo lo si rileva in tutti i Paesi presi in esame, in America, Europa e Asia. Ciò non vuol dire che l’introduzione di Npi sia stata inutile, semplicemente è più difficile capirne la reale efficacia. Anche senza ordini e minacce, infatti, i cittadini tendono a proteggersi dalla minaccia di una pandemia.
Anche se non è possibile saltare subito alla conclusione più forte (“abbiamo fatto un sacrificio inutile e non abbiamo ancora capito quanto lo pagheremo”), va fatta per lo meno un’osservazione di metodo: il lockdown costa tanto, come abbiamo visto quotidianamente, in termini umani più ancora che economici. Dobbiamo ancora contare quanti sono morti per mancanza di assistenza, di cure, per le conseguenze della crisi economica e per quelle psicologiche di una vita da recluso, quando è vissuta da un adolescente o da una persona fragile. L'onere della prova dovrebbe spettare ai fautori di una politica così esigente e rischiosa. Dovrebbero essere loro a dimostrare, in modo inoppugnabile, che solo il lockdown salva vite. Studi come quelli che abbiamo visto in questo articolo, benché non dicano l’ultima parola definitiva, mettono quantomeno in dubbio tale convinzione. Non è affatto detto che il lockdown sia l’unica strategia in grado di salvare vite. E non ci sono prove per dimostrarlo. Non si capisce perché, dunque, anche in questa Pasqua, per la seconda volta di fila, dobbiamo accettare restrizioni alla nostra libertà quotidiana senza neppure poter discutere.