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IL TENTATO "GOLPE" NEL CULTO

Preghiera "rara" per una messa senza consacrazione

Il gruppeto di liturgisti capitanati da padre Taft vorrebbe una preghiera eucaristica senza consacrazione. Sarebbe una crepa nella teologia cattolica sull’Eucaristia e sul Sacerdozio. E per ottenerla sono pronti a forzare un caso particolare e di emergenza subìto dalla Chiesa Caldea a seguito delle persecuzioni. 

Ecclesia 04_03_2017

L’anafora di Addai e Mari è una preghiera eucaristica in uso nella Chiesa assira d’Oriente (o Chiesa nestoriana), cioè una chiesa che ha le sue origini in Mesopotamia e poi estesasi fino in India, non in comunione con la Chiesa cattolica, né con il Patriarcato ortodosso di Antiochia, per il fatto di non aver riconosciuto il Concilio di Calcedonia. Nel 1966 William F. Macomber ne scoprì la più antica versione nell’Hudra (libro liturgico) della chiesa Mar Esh’aya di Mosul. La particolarità stava nel fatto che nel testo dell’anafora non figuravano le parole della consacrazione.

Da allora è stato un legittimo brulichio di studi per spiegare questa particolarità, ma in tempi più recenti, la posta in gioco sembra essere cambiata. Era chiaro a molti che, se si fosse riusciti a far passare l’equazione anafora senza parole di consacrazione = anafora valida, si sarebbe creata una crepa nella teologia cattolica sull’Eucaristia e sul Sacerdozio. L’occasione fu propiziata dalle guerre e persecuzioni in Medio Oriente, che causarono molti spostamenti di persone, in particolare dall’Iraq. Occorreva perciò affrontare una questione pastorale nuova: potevano i cattolici caldei partecipare alle Messe della Chiesa assira, che utilizzava l’anafora di Addai e Mari?

Il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani (PCUC) iniziò a premere insieme alla Congregazione per le Chiese Orientali, allora presieduta dal card. Silvestrini, per ottenere il riconoscimento della validità dell’anafora. La Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) spedì almeno tre lettere, per chiedere che la questione fosse studiata in modo più approfondito. Nel 2001 il PCUC ha pubblicato degli Orientamenti, con annessa una disposizione chiarificatrice, nei quali, tra le altre cose, si afferma il riconoscimento della validità dell’anafora, ma si aggiunge anche che, «quando dei fedeli caldei partecipano a una celebrazione assira della Santa Eucaristia, il ministro assiro è caldamente incoraggiato a introdurre nell'Anafora di Addai e Mari le parole dell'Istituzione».

Lo status magisteriale del documento del Pontificio Consiglio

Attenendosi ai fatti, il documento porta la firma del PCUC, ricevuto il parere affermativo della CDF e del Sommo Pontefice. Ma esso non è stato firmato né dal Prefetto della Congregazione, né dal Papa. Questo è più che sufficiente per smorzare gli eccessivi entusiasmi di alcuni liturgisti, come il gesuita p. Robert Taft, che salutò gli orientamenti come il «documento magisteriale più importante dopo la promulgazione dell’ultimo dogma cattolico, vale a dire dal 1950 quando Pio XII proclamò il dogma dell’Assunta».

Sempre Taft, nel suo articolo più noto a riguardo (Messa senza Consacrazione? Lo storico accordo sull’eucaristia tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira d’Oriente promulgato il 26 ottobre 2001), come se fosse la cosa più scontata ed evidente, ha ripetutamente affermato che tale documento è espressione del supremo magistero della Chiesa. Sinceramente sembra un po’ troppo, visto che questo titolo spetta o al Magistero del Pontefice o a quello dell’episcopato universale cum Petro et sub Petro.

Gli Orientamenti invece sono un documento che non può rivendicare l’accoglienza dovuta al Magistero supremo, perché non si tratta di un atto né del papa, né di un Concilio e nemmeno della CDF, che sola si può esprimere a nome del Papa su materie che coinvolgono la fede della Chiesa. 

A conferma che questi Orientamenti non possono pretendere di avere valore magisteriale per la Chiesa universale concorre un altro elemento: la loro assenza dagli Acta Apostolicae Sedis, che sono l’organo di promulgazione dei decreti, leggi e documenti della Chiesa. Anzi, proprio a conclusione del documento del Pontificio Consiglio, si esplicita che «la promulgazione di queste disposizioni fra la Chiesa assira dell'Oriente e la Chiesa caldea è di competenza delle due Chiese particolari e delle loro rispettive autorità (cfr. CCEO, can. 670, §1; 671, §4.5)».

Si tratta quindi di una disposizione prudenziale con valore locale («le suddette considerazioni sull'uso dell'Anafora di Addai e Mari […], si intendono esclusivamente per la celebrazione eucaristica […] della Chiesa caldea e della Chiesa assira dell'Oriente») e non di una decisione da estendere alla Chiesa universale o di un nuovo insegnamento teologico. Eppure diversi liturgisti, come il già citato Taft, o Giraudo, Mazza, etc., si sono appoggiati su questo documento per arrivare a ritenere che le parole della consacrazione o non sono necessarie o sono addirittura un tradimento delle anafore più antiche.

Stravaganze liturgiche

Tra le argomentazioni del documento del PCUC per motivare la propria decisione di riconoscere la validità dell’anafora, una riguarda l’aspetto storico. Si afferma che l’anafora di Addai e Mari «è una delle più antiche anafore, risalente ai primordi della Chiesa […] La sua validità non è mai stata ufficialmente confutata, né nell'Oriente né nell'Occidente cristiani».  

In effetti sorprende l’eccessiva semplificazione della questione, che ha sciolto le briglie di molti liturgisti: se l’anafora è antica e se la sua validità non è mai stata contestata, allora le parole della consacrazione non sono necessarie per la validità. Si è arrivati infatti a sostenere che le parole pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena non siano indispensabili, andando ben oltre il tenore degli Orientamenti e in patente conflitto con la dichiarazione dogmatica del concilio di Firenze del 1439 nel Decretum pro Armenis: «forma di questo sacramento sono le parole con cui il Salvatore l’ha consacrato. Il sacerdote, infatti, consacra parlando in persona di Cristo. E in virtù delle stesse parole la sostanza del pane si trasforma in corpo di Cristo, e la sostanza del vino in sangue» (DS 1321); non diversamente si pronuncia il Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1413, ed il Magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sull’Eucaristia, successivo agli Orientamenti del 2001, mai hanno autorizzato tante stravaganze. 

Secondo il gesuita Robert Taft, per esempio, a consacrare sarebbero le parole pronunciate da Gesù una volta per tutte e non la loro ripetizione da parte del sacerdote; Enrico Mazza e l’altro gesuita, p. Cesare Giraudo, invece, ritengono che nessuna preghiera eucaristica contenesse in origine le parole della consacrazione, aggiunte solo in un secondo momento da quella che Giraudo ha definito una “metodologia delle idee chiare e distinte”, il cui capostipite sarebbe Pietro Lombardo, reo di non aver più saputo comprendere lo spirito dei Padri, ma di averlo anzi travisato. 

Interpretazioni differenti dello stesso fatto

E’ un dato di fatto che la più antica testimonianza dell’anafora attualmente a nostra disposizione (X secolo) non riporta le parole di consacrazione; ma non è un fatto che esse non fossero pronunciate. In ambito liturgico, soprattutto quando si parla dei primi secoli, si entra più nella sfera delle congetture che delle certezze, anche a motivo del fatto che è solo a partire dal IV che le anafore e preghiere eucaristiche iniziano ad essere fissate per iscritto. 

Siccome i fatti non parlano da soli, spesso entrano in gioco interpretazioni che rispondo ad una visione precostituita. Non si può presupporre un’equivalenza tra ciò che veniva scritto e ciò che era effettivamente pronunciato; esisteva infatti nella Chiesa antica la disciplina del secretum arcani, cioè l’uso di tenere custoditi e nascosti alcuni riti e formulari. C’è una testimonianza interessante di Gabriele del Qatar, commentatore di area assiro-caldea, che afferma esplicitamente (inizio del VII secolo): «il fatto che egli [sacerdote] reciti l’intera parte silenziosamente, ma alla fine alzi la voce, così che il popolo possa sentire, è dovuto anzitutto al fatto che si sta compiendo un Mistero, e non è opportuno che tutti lo conoscano; secondariamente, [affinché] non accada che le parole, nell’essere ascoltate, siano imparate da laici, donne e bambini, con il risultato che le divine parole siano ritenute come ordinarie e vengano così disprezzate».

Non è affatto fantasioso dunque ritenere che le parole consacratorie non fossero scritte proprio per evitarne la “profanazione”, soprattutto in quei secoli in cui la Chiesa assira dovette fare i conti prima con i Sasanidi e poi con la conquista islamica, due imperi che causarono non poche persecuzioni. Più di un commentatore dell’area assira si riferisce alle parole della consacrazione e anche al fatto che esse venivano pronunciate a memoria e in segreto, come attesta questo commentario di un Anonimo (VII-IX sec.): «quando il celebrante giunge al termine della narrazione del sacrificio, cioè quando il Signore ha consegnato il suo corpo e il suo sangue, egli completa il gehanta (inchino) con il sigillo della Trinità, e il popolo, poiché, essendo perfetto, conosce la preghiera segreta del sacerdote, risponde “amen”».

C’è poi una preziosa testimonianza de visu di un missionario anglicano, inviato ad Urmia (città di origine assira dell’attuale Iran) sul finire del XIX secolo, il quale attesta che le parole consacratorie «non furono mai affidate allo scritto dai siriani, sebbene il sacerdote le abbia sempre pronunciate nella celebrazione dei misteri». 

Come minimo, bisognerebbe ridurre a mera ipotesi possibile il fatto che l’anafora venisse effettivamente pregata senza le parole dell’istituzione. E forse è proprio perché era risaputo che tali parole erano pronunciate in secreto che la validità di tale anafora non venne contestata; l’assenza delle parole di Cristo dai manoscritti non prova dunque la loro assenza dalla celebrazione. 

C’è un altro fatto che dovrebbe far riflettere su quanto si sia voluto spingere sulla validità di tale anafora per altri scopi, che poco hanno a che fare con la necessità pastorale dei cattolici caldei. E’ lo stesso Macomber ad attestare che «l’ultimo messale stampato a Trichur, in India nel 1959 […] ha [le parole della consacrazione] come parte integrante del testo. Tutte le Messe che ho frequentato negli ultimi anni, nelle quali è stata utilizzata l’anafora di Addai e Mari, hanno incluso questa versione [di San Paolo] delle parole di consacrazione. Come per il segno della Croce, essa è inclusa quale parte integrante dell’edizione anglicana del messale e nessun nestoriano oggi penserebbe di cambiarla».