Pranzo in Basilica, i buchi di Tornielli
Giustificare il pranzo in San Petronio citando tre Padri della Chiesa dà l'idea del processo di paganizzazione in atto, con il ripescaggio di episodi dell’antichità per ripristinare usi che la tradizione della Chiesa ha respinto.
Avevo voluto scrivere al Direttore una semplice lettera (qui), nella quale si chiedeva di rivedere questa prassi di usare le chiese per finalità diverse da quelle per cui sono state dedicate, e nella quale si tentava di far riflettere sulle conseguenze nefaste circa l’eliminazione della distinzione tra sacro e profano, che un atto come quello avvenuto domenica, nella basilica di san Petronio a Bologna, avrebbe provocato. Ma già porre la questione ha fatto saltare i nervi a qualcuno, al punto che si è messa in moto la contraerea, nella persona di Andrea Tornielli su La Stampa (vedi qui). Intendo sorvolare sui soliti toni usati, che ovviamente cercano di banalizzare fin dall’inizio la questione, come una cosa di qualche stupido che non conosce la storia della Chiesa e di squalificare come “tradizionalista” che deve cercare la sua quotidiana accusa contro il Papa chi ha dissentito dall’iniziativa di monsignor Matteo Zuppi.
Veniamo però alle argomentazioni, che sono fondamentalmente racchiuse nell’affermazione di Tornielli di dimenticare e ignorare la storia della Chiesa.
Gesù ha mangiato con i peccatori, destando scandalo, e san Giovanni Crisostomo esorta a servire prima Cristo nei bisognosi e poi ad ornare l’altare. Questa osservazione, riportata da Tornielli, non avrebbe bisogno di commenti, perché la nostra critica non sta nel fatto di mangiare con i poveri e neppure nel fatto di soccorrerli nei loro bisogni, quanto piuttosto nell’opportunità di mangiare dentro la Basilica. Ma mi ci soffermo perché questa prima argomentazione di Tornielli ricalca la motivazione data da mons. Zuppi al clero di Bologna, che era in gran parte contrario all’iniziativa. Di fronte all’opposizione del suo clero, sia in sede di confronto pubblico che privato, Sua Eccellenza ha motivato l’opportunità di mangiare in Basilica ricorrendo alla sacramentalità dei poveri; in altre parole, nei poveri è presente Cristo, quindi i poveri possono stare in Basilica. Ma questa motivazione, a mio avviso, sposta la questione su un terreno che non è il suo. Nessuno contesta il fatto che i poveri possano entrare in san Petronio e nemmeno che servire il nostro prossimo significhi servire Cristo, ma l’obiezione che continuo a muovere sta nel fatto che si voglia mangiare in Basilica e non in altre strutture che alla diocesi di Bologna, grazie a Dio, non mancano.
La parte principale dell’articolo di Tornielli menziona tre Padri della Chiesa, a sostegno del fatto che sia assolutamente tradizionale che i poveri mangino dentro una chiesa. I testi sono rispettivamente di San Giovanni Crisostomo, San Gregorio Magno e San Paolino da Nola. Le citazioni sono tratte dalla rivista Communio (n.220, anno 2009), che Tornielli ha a cuore di qualificare come non “eversiva”. In altre parole: cosa volete di più? Questi testi sono riportati dalla rivista fondata nientepopodimenoché da Joseph Ratzinger… Però l’autore dell’articolo citato da Tornielli è don Vittorio Ianari, guarda caso membro della Comunità di Sant’Egidio, come mons. Zuppi; e sempre guarda a caso i passi citati sono presenti pari pari in un testo di mons. Vincenzo Paglia, anche lui della Comunità di Sant’Egidio, quando era ancora vescovo della Diocesi di Terni-Narni-Amelia (scaricabile qui). Mi sembra quindi che si tratti di una selezione della tradizione della Chiesa un po’ di parte, made in Sant’Egidio. Ed anche un po’ forzata, come cercherò di spiegare nei punti successivi.
1. Qual è il contesto remoto dei testi dei Padri citati? Giovanni Crisostomo è il primo in ordine temporale; stiamo parlando di un Padre del IV secolo; Paolino è leggermente più tardivo (muore nella prima metà del V secolo), mentre Gregorio Magno è il più “recente” (540-604). Soprattutto per quanto riguarda i primi due, siamo nel primo periodo post-costantiniano; il che significa che la Chiesa sta gradualmente organizzando, tra l’altro, i propri riti liturgici. Per quanto riguarda il rito di dedicazione delle chiese, le prime notizie si collocano intorno ai primi decenni del 300 (dedicazione della cattedrale di Tiro e della basilica del S. Sepolcro a Gerusalemme) e le notizie storiche sembrano convergere nel sottolineare l’assenza di un rito particolare: le chiese venivano “inaugurate” semplicemente con la celebrazione solenne dei Divini Misteri, senza altri riti specifici.
Secondo il Righetti, questa prassi perdura a Roma per tutto il VI secolo. Questa contestualizzazione è importante per capire che i riferimenti liturgici relativi a questi primi secoli non devono mai essere assolutizzati: usanze in uso al tempo sono state poi gradualmente rimosse o rettificate dallo sviluppo liturgico successivo. «Non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per le mutate circostanze»: così Pio XII nella Mediator Dei, condannando «l’eccessivo e insano archeologismo».
L’archeologismo è una delle più grandi pesti contemporanee e non solo in ambito liturgico. Si tratta di una moda che tratta la tradizione della Chiesa come un insieme di oggetti più o meno antichi, collocati in vetrina senza un ordine logico, dei quali si può fare man bassa per giustificare qualsiasi cosa, sia in senso progressista che tradizionalista. Non si coglie che invece la tradizione ha una “direzione”, non presupposta ideologicamente, ma che emerge chiaramente dal suo effettivo sviluppo. In soldoni: è insano archeologismo andare a pescare episodi dell’antichità per ripristinare usi o insegnamenti che la tradizione della Chiesa ha consapevolmente lasciato cadere, se non apertamente respinto.
2. Da quanto detto consegue che, nella vera ermeneutica della tradizione, “una rondine non fa primavera”. Non basta citare un Padre qui e una fonte liturgica là. Non sono le sentenze dei singoli Padri ad indicare la linea di sviluppo della tradizione, ma l’unanimis consensus patrum, che in definitiva significa il consensus Ecclesiae. Il 5 novembre 1987, la Congregazione per il Culto Divino indirizzava ai presidenti delle Conferenze Episcopali la lettera De concentibus in ecclesiis, dove riprendeva proprio la tradizione della Chiesa per ricordare che «il principio che l’utilizzazione della chiesa non deve essere contraria alla santità del luogo determina il criterio secondo il quale si deve aprire la porta della chiesa a un concerto di musica sacra o religiosa, e la si deve chiudere ad ogni altra specie di musica», compresa quella sinfonica.
Sulla base di quale criterio la Congregazione diede questa disposizione (prontamente disattesa)? Sulla verità secolare che «le chiese… sono luoghi sacri, cioè “messi a parte” in modo permanente, per il culto a Dio, dalla dedicazione o dalla benedizione… Quando le chiese si utilizzano per altri fini diversi dal proprio, si mette in pericolo la loro caratteristica di segno del mistero cristiano, con danno più o meno grave alla pedagogia della fede e alla sensibilità del popolo di Dio».
E’ esattamente quello che ho cercato di mettere in rilievo con la mia lettera; se ho parlato di profanazione, l’ho fatto con il preciso scopo di far capire che l’atto di mangiare dentro la basilica, pur potendo fare diversamente, costituisce un “declassamento” di un edificio sacro ad un uso profano. E dunque un abuso. Non è un attacco personale né all’Arcivescovo né al Papa.
3. Consideriamo i tre testi ad uno ad uno. Anzitutto il Crisostomo; è interessante notare che questo Padre già parla al passato: «Nelle chiese c’era un’usanza ammirevole… i fedeli partecipavano… invitavano i poveri, etc». Questo dettaglio ci permette di capire che nel quarto secolo si considerava questo uso come già appartenente al passato. San Giovanni Crisostomo loda ciò che spingeva i cristiani a queste agapi fraterne, ma non manifesta nessuna intenzione di ripristinare un uso che evidentemente non era più considerato opportuno nella Chiesa. Eppure, come Vescovo, avrebbe potuto farlo! Se non l’ha fatto, evidentemente era consapevole dei “danni più o meno gravi”, secondo quanto riportato dalla lettera sopra citata, che questa prassi poteva comportare e che ha incentivato le Chiese locali a trovare altri luoghi più consoni per tali attività caritative.
La lettera con cui Paolino da Nola elogia il senatore Pammachio, che diede un banchetto per i poveri in occasione dei riti funebri della moglie, richiede una breve premessa. Siamo nel IV secolo e l’opera della Chiesa si innesta all’interno di un contesto pagano. I riti funebri dell’antica Roma prevedevano, tra l’altro, un banchetto funebre accanto alla tomba del defunto. L’evangelizzazione di questi secoli richiese una paziente opera di “bonifica” di diverse usanze pagane, tra cui appunto i riti funebri. Vennero perciò ammessi banchetti rituali collegati alle feste liturgiche dei martiri o ai suffragi dei defunti, banchetti che però vennero ben presto celebrati al di fuori dei luoghi sacri. Avvenne come nell’VIII secolo per le ordalie, importate dall’ordinamento giuridico longobardo, tollerate in un primo momento dalla Chiesa e poi gradualmente eliminate.
Ora, il fatto di giustificare il pranzo con i poveri in san Petronio, ricorrendo a questa lettera di San Paolino (la citazione della lettera a Pammachio è riportata anche sui volantini distribuiti dalla Diocesi di Bologna per supportare l’evento) oltre ad essere una forzatura storica, dovuta alla citazione di un testo fuori contesto, manifesta purtroppo la paganizzazione operante all’interno della Chiesa: ai tempi di san Paolino, infatti, la Chiesa stava gradualmente facendo uscire il popolo dal paganesimo, tant’è vero che l’uso dei banchetti funebri finì per sparire dalle chiese; mentre oggi si vogliono ripristinare questi usi scomparsi, segno della secolarizzazione e paganizzazione penetrata nella Chiesa, ad ogni livello.
Anche il riferimento a San Gregorio Magno è decontestualizzato, sebbene Tornielli non manchi di ricordare che quelli erano momenti particolarmente difficili per la città di Roma. In verità non si trattava semplicemente di momenti difficili, ma di un periodo veramente tragico, che sembrava non finire mai. San Gregorio Magno, nel suo commento a Ezechiele, tratteggia il dramma che travolgeva Roma e buona parte dell’Italia, a causa dell’invasione longobarda: «Da ogni parte siamo circondati dalle spade, da ogni parte temiamo imminente il pericolo di morte. Alcuni ritornano da noi con le mani troncate, altri sono stati fatti prigionieri, di altri ci giunge notizia che sono stati uccisi». Saccheggi, deportazioni, morti, carestia, malattie: era questo lo scenario quotidiano davanti agli occhi di Gregorio; chi avrebbe qualcosa da obiettare se in situazioni di così grave necessità le chiese venissero aperte ai miseri, per dar loro di che sopravvivere? Ma come si fa a paragonare il pranzo di domenica, dove in Basilica, secondo le foto riportate proprio su La Stampa, c’erano i poveri con il cellulare a fare selfie con papa Francesco, in una Bologna che ha mense per poveri e centri di accoglienze sia da parte di associazioni cattoliche che laiche, con il triclinium pauperum al Celio?