Pompeo a Roma, aria di Guerra Fredda Usa-Vaticano
Atteso oggi nella capitale il segretario di Stato americano. Oltre agli incontri con Conte e Di Maio, il braccio destro di Trump vedrà domani Parolin. Sul viaggio diplomatico pesa il “no” all’udienza con Francesco: la Santa Sede lega il rifiuto alle presidenziali in corso, ma molti lo interpretano come una risposta all’editoriale di Pompeo contro l’accordo sino-vaticano
Arriva oggi a Roma il segretario di Stato americano Mike Pompeo. Il braccio destro di Donald Trump, oltre agli incontri con il premier italiano Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è atteso domani al Palazzo Apostolico per un faccia a faccia con il suo omologo, il cardinale Pietro Parolin e con il segretario per i rapporti con gli Stati, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher.
La tappa diplomatica, che oggi vedrà la partecipazione ad un simposio dedicato al tema “Promuovere e difendere la libertà religiosa internazionale attraverso la diplomazia”, appare inevitabilmente segnata dalla mancata possibilità di essere ricevuto in udienza da Bergoglio. Pompeo, infatti, dovrebbe - come recita un vecchio proverbio mai così calzante - venire a Roma senza vedere il papa. Pochi giorni fa la diplomazia vaticana ha comunicato a Washington che Francesco non avrebbe potuto ricevere il segretario di Stato statunitense in virtù di una consuetudine che impedirebbe ai pontefici di concedere udienze a personalità politiche di Paesi dove sono in corso campagne elettorali. La notizia del “no” papale, però, non poteva non essere interpretata come una risposta indiretta alla netta presa di posizione di uno degli uomini di punta dell’amministrazione Trump contro il rinnovo dell’accordo sino-vaticano.
L’editoriale pubblicato sulla rivista online First Things, nel quale Pompeo avvertiva che la Santa Sede “metterebbe a rischio la sua autorità morale” in caso di prolungamento dell’Accordo Provvisorio con Pechino, è stato percepito come un’interferenza nei Sacri Palazzi, particolarmente fastidiosa per un pontefice che ha investito non poco nel dialogo con le autorità cinesi. E, d’altra parte, non è un mistero che Bergoglio non sia un fan dell’attuale amministrazione statunitense: nelle relazioni di questi quattro anni tra Santa Marta e Casa Bianca ha pesato come un macigno quello scontro senza precedenti avvenuto in piena campagna per le presidenziali 2016, col papa che sul volo di ritorno dal Messico bollò Trump come “non cristiano” e l’allora candidato repubblicano che gli rispose che “per un leader religioso mettere in dubbio la fede di una persona è vergognoso”.
Proprio durante quella campagna elettorale, nell’aprile del 2016, Francesco strinse la mano al candidato per la nomination democratica Bernie Sanders e pochi giorni dopo all’allora vicepresidente Usa - e attuale candidato ufficiale dell’asinello - Joe Biden. Gesti che negli States fecero storcere la bocca a repubblicani e clintoniani ma che il pontefice difese convintamente, sostenendo che “se qualcuno pensa che dare un saluto sia immischiarsi in politica, gli raccomando di trovarsi uno psichiatra”.
Bergoglio e Trump non si sono risparmiati sgambetti reciproci in questi quattro anni: come dimenticare la stoccata papale sul volo diretto in Mozambico (“per me è un onore che mi attacchino gli americani”) o la condivisione social - con tanto di ringraziamento - riservata dal presidente statunitense a una lettera di monsignor Carlo Maria Viganò, l’autore del memoriale sul caso McCarrick.
L’inusuale attacco di Pompeo alla politica estera della Santa Sede nei confronti del “nemico” cinese è stato, probabilmente, un rischio calcolato ma ha finito per esacerbare le frizioni preesistenti sull’asse Roma-Washington. Non ci sono state reazioni o commenti ufficiali all’editoriale su First Things, ma il quotidiano della Cei ha ospitato lo scorso 22 settembre un articolo in cui Gianni Cardinale, la penna di Avvenire più esperta sui rapporti sino-vaticani, ha scritto che «le parole di Pompeo (...) vengono considerate nella Prima Loggia come una chiara “interferenza”. Che potrebbe meritare una risposta». E la mancata concessione dell’udienza, seppur con motivazioni formalmente non collegate alla vicenda, è apparsa un po’ a tutti i commentatori come una risposta all’intervento del segretario di Stato americano.
Lunedì è arrivato anche il durissimo affondo del cardinal Oscar Rodriguez Maradiaga, uomo vicinissimo a Bergoglio nonché coordinatore del Consiglio dei Sei (C6) che lo coadiuvano nel governo della Chiesa: “Intromettersi mi pare una follia”, ha detto l’arcivescovo honduregno in un’intervista a Repubblica. “Cercano la rielezione di Donald Trump, e si muovono solo seguendo quelle logiche (...), nelle relazioni nostre con la Cina non si devono intromettere”.
Ma sbaglierebbe chi pensasse che queste tensioni diplomatiche tra Casa Bianca e Palazzo Apostolico siano un’esclusiva dell'attuale pontificato. È sufficiente tornare ai quasi otto anni di pontificato di Benedetto XVI per imbattersi in un precedente simile, anch’esso legato ad una diversità di vedute geopolitiche. Nel 2007 l’allora segretario di Stato Usa Condoleezza Rice aveva programmato una visita ufficiale a Roma per l’ultima settimana di luglio e aveva richiesto di essere ricevuta da Ratzinger in vista della sua partenza per un tour mediorientale che sarebbe partito dall’Egitto. La diplomazia vaticana, però, anche in quel caso rispose che il papa non avrebbe potuto incontrare l’allora punta di diamante dell’amministrazione Bush perché durante il periodo di riposo estivo a Castel Gandolfo tutte le udienze erano sospese. Dietro il rifiuto, quindi, una motivazione formale che anche nel caso di Rice nascondeva, in realtà, la volontà di restituire uno sgarbo alla personalità politica che nel 2003, mentre ricopriva l’incarico di Consigliere per la Sicurezza Nazionale, si distinse per la durezza con cui trattò il cardinale Pio Laghi inviato a Washington da Giovanni Paolo II per convincere George W. Bush ad evitare l’intervento militare in Iraq.
Le recenti schermaglie diplomatiche sull’apertura vaticana a Pechino, inoltre, danno un senso di déjà-vu, facendo tornare alla mente il clima da Guerra Fredda degli anni Settanta, quando da Washington si seguiva con molta attenzione e non senza qualche preoccupazione la Ostpolitik della Santa Sede verso i Paesi del Patto di Varsavia. Nel 1970 il Dipartimento di Stato americano cominciò a temere che Paolo VI non sarebbe stato contrario all’instaurazione di rapporti diplomatici ufficiali con l’Urss e allarmò il presidente Nixon che decise di convocare il potente sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Benelli, nella capitale degli Stati Uniti.
Proprio il timore di un avvicinamento eccessivo tra Santa Sede e Mosca favorì la resa dei non pochi dirigenti antipapisti del Partito repubblicano alla prospettiva - fortemente voluta da “Tricky Dick” che apprezzava l’acutezza politica di Montini - di riallacciare un canale diplomatico con il Vaticano. Fu così che nell’estate di quello stesso anno Henry Cabot Lodge Jr. poté presentare al papa le sue credenziali come inviato speciale del presidente presso la Santa Sede “per garantire una maggiore continuità nei contatti informali” che già avevano avuto luogo. Quella missione aprì le porte all’instaurazione di pieni rapporti diplomatici tra quelli che Massimo Franco ha definito “i due imperi paralleli” e alla nomina del primo nunzio apostolico negli States, il futuro cardinale Pio Laghi, e del primo ambasciatore americano presso la Santa Sede, William Wilson.
Ed è proprio un successore di quest’ultimo, l’attuale ambasciatrice Callista Gingrich, che oggi accoglierà Mike Pompeo all’hotel Westin Excelsior per un simposio sulla difesa della libertà religiosa che già nel video di presentazione, corredato dall’immagine di una bandiera cinese e di un’attivista per i diritti umani degli uiguri, si annuncia come un’altra inequivocabile manifestazione della contrarietà statunitense al rinnovo dell’Accordo Provvisorio.