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GUERRA VALUTARIA

"Petroyuan", la sfida monetaria cinese agli Usa

Dopo essere usciti dal gold standard (convertibilità in oro), Nixon aveva agganciato il dollaro agli scambi del petrolio: il petrodollaro. La Cina sta sfidando gli Usa sul loro stesso terreno, agganciando la sua valuta nazionale, lo yuan, al mercato petrolifero: il petroyuan. Obiettivo lontano, ma accelera il processo di de-dollarizzazione. 

Economia 04_04_2022
Pechino, banca centrale

Che cosa si intende col termine “Petroyuan”? Il riferimento è alla strategia cinese di aumentare l’importanza internazionale della propria divisa, il «Renminbi» («la valuta del popolo», di cui l’unità di base si chiama appunto «Yuan»), ancorando ad essa gli scambi di petrolio, di cui il Paese asiatico costituisce il maggior importatore al mondo. Il governo di Xi Jinping (1953-) attribuisce grande importanza alla stabilità monetaria, con la speranza che lo yuan acquisisca nei numeri lo status di divisa di riserva mondiale – in aggiunta a dollaro, euro, yen e sterlina –, anche se sul piano formale ha già ottenuto tale riconoscimento a fine 2015 da parte del Fondo Monetario Internazionale. L’obiettivo è quello di sfidare alla pari, anche sul fronte valutario e finanziario come già su quello commerciale e tecnologico, la supremazia statunitense.

Scalfire il dominio del dollaro, tuttavia, è un obiettivo difficilmente raggiungibile, mentre il Paese asiatico continua a registrare avanzi nella bilancia commerciale ma contemporaneamente impone restrizioni sui flussi di capitale in uscita. Per di più, l’utilizzo dello yuan nei pagamenti globali è ancora modesto, a ridosso del 2%, mentre il suo peso complessivo nelle riserve delle Banche centrali mondiali, ancorché in crescita, secondo dati del Fondo Monetario Internazionale si aggira solamente sul 2,7%, a fronte del 59,1% del dollaro Usa e del 20,5% dell’euro: ciò costituisce un freno oggettivo alle ambizioni geo-politiche della Cina che rischia così di rimanere bloccata nella «trappola del Renminbi». Solo aumentando la domanda interna, accettando disavanzi commerciali ed eliminando le restrizioni ai flussi di capitale in uscita, con un tasso di cambio determinato liberamente sui mercati valutari internazionali, si creerebbe quella trasparenza e fiducia valutaria necessarie a portare il Renminbi ad essere nei fatti una divisa di riserva a livello mondiale, come il Dollaro Usa, l’Euro e lo Yen giapponese. Stante la situazione, non è quindi verosimile che lo yuan possa sfidare il predominio assoluto del dollaro in tempi brevi.

Al momento, infatti, la Cina è certamente un gigante economico – la seconda economia e il maggiore esportatore al mondo – ma un nano valutario e finanziario, per di più minacciato dalla «trappola del debito» e da una demografia sempre più sfavorevole. Per cercare di uscire dall’impasse, il governo comunista sta tentando da alcuni anni di sottrarre progressivamente il commercio del petrolio al monopolio del dollaro statunitense, ancorando le proprie importazioni di greggio allo yuan anziché al biglietto verde. Il tentativo di sottrarsi al dominio del dollaro fa gola non solo alla Cina ma a molti altri Paesi, tra i quali quelli che fanno parte del cosiddetto gruppo dei “BRICS” (oltre alla Cina, il Brasile, la Russia, l’India e il Sud Africa), perché ne aumenterebbe la libertà d’azione nei confronti degli Usa, e ciò potrebbe comportare conseguenze importantissime nel futuro delle relazioni commerciali, finanziarie e geopolitiche.

L’analogia del termine “petroyuan” è ovviamente col cosiddetto “petrodollaro, utilizzato per descrivere l’accordo tra l’amministrazione statunitense, a guida di Richard M. Nixon (37° Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1969 al 1974), con la casa reale dell’Arabia Saudita, la famiglia Saud, avvenuto nel lontano 1974, poco prima della fine prematura del mandato presidenziale. Il patto è basato sulla protezione militare garantita dagli Usa all’Arabia Saudita, in cambio dell’impegno saudita a scambiare il petrolio – di cui gli Stati Uniti erano ai tempi il maggiore importatore al mondo – esclusivamente contro il dollaro, e di reinvestire poi gli introiti in attività finanziarie statunitensi. Gli altri Paesi produttori di petrolio, riuniti nell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, si sono poi allineati nel 1975 alla decisione, definendo anch’essi il prezzo del petrolio esclusivamente in dollari Usa. In tal modo, il dollaro poté mantenere lo status di divisa di riserva mondiale, che rischiava invece di perdere a causa della decisione di porre fine alla sua convertibilità in oro, presa dallo stesso Nixon e annunciata a Camp David il 15 agosto del 1971 come l’inizio di una «nuova politica economica» per gli Usa. Giova ricordare brevemente l’evoluzione monetaria nel secondo dopoguerra, per comprendere meglio la posta in gioco.

Nel luglio del 1944, nella Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite, tenutasi a Bretton Woods nel New Hampshire, venne costituito un sistema aureo di tipo indiretto, da cui la definizione di gold “exchange” standard. Le monete d’oro non circolavano più e anche se sulle banconote comparivano ancora scritte del tipo “pagabile a vista al portatore”, la possibilità di convertirle in metallo prezioso era preclusa ai cittadini e riservata esclusivamente alle principali Banche centrali nazionali, che potevano chiedere alla Federal Reserve statunitense (Fed) di convertire in oro le proprie divise, legate al dollaro Usa da un rapporto di cambio fisso, con l’oro bloccato a 35$Usa all’oncia. La Fed ne approfittò per “inflazionare” il sistema, aumentando la produzione di dollari – divenuto la divisa di riserva del mondo – ben al di là delle riserve auree detenute. Gli Usa poterono così finanziare a debito la propria spesa pubblica e il proprio deficit commerciale, allargando progressivamente il perimetro dello Stato, soprattutto dopo il varo del programma di welfare soprannominato «Great Society» lanciato nel 1964 dal Presidente Lyndon B. Johnson (1963-1969), nonché sostenere le ingenti spese per la guerra in Vietnam (1955-1975). Gli Usa, di fatto, continuarono a vivere al di sopra dei propri mezzi, “monetizzando” parzialmente il proprio debito facendo affidamento sul fatto che gli altri Paesi erano giocoforza tenuti a fare riferimento alla divisa statunitense, sia per pagare le proprie importazioni di greggio e materie prime sia per allocare i propri investimenti finanziari. Ad un meeting del G-10 tenutosi a Roma alla fine del 1971, l’allora Segretario del Tesoro statunitense, John B. Connally, sorprese le controparti con la seguente dichiarazione: «The dollar is our currency, but it’s your problem», cioè «Il dollaro è la nostra divisa, ma è il vostro problema».

Con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro nell’agosto del 1971, seguita nel dicembre dello stesso anno dallo «Smithsonian Agreement», che pose fine agli accordi di cambio fisso tra le principali divise mondiali e il dollaro stesso, terminò l’era monetaria sancita con gli Accordi di Bretton Woods. Al di là delle dichiarazioni retoriche di Nixon, che denunciò una non meglio precisata “speculazione” internazionale contro il dollaro, il mondo si rese conto, di colpo, che “il Re era nudo”: l’enorme massa di dollari messi in circolazione dagli Stati Uniti non era coperta dall’oro detenuto. A dire il vero, il generale Charles de Gaulle, Presidente della Francia dal 1959 al 1969, già nel 1965 aveva espresso le proprie preoccupazioni, dichiarando in modo molto esplicito: «Il fatto che molti Paesi accettino come un dato di fatto che i dollari equivalgono all’oro […] porta gli americani a indebitarsi e a indebitarsi senza costi, a spese di altri Paesi. Questo perché il debito degli Stati Uniti viene poi ripagato, almeno in parte, con dollari che loro sono gli unici autorizzati a emettere». Svelato definitivamente il bluff americano, il dollaro statunitense divenne a quel punto una divisa fiat a tutti gli effetti, sostenuta ancora dalla propria supremazia economica e militare, ma col rischio di perdere progressivamente di centralità al venir meno della fiducia degli altri Paesi, mettendo così a rischio la tenuta del proprio sistema economico e finanziario.

Il Presidente Nixon, con l’aiuto di Henry Kissinger, segretario di Stato dal 1973 al 1977, ebbe allora la geniale trovata di ancorare il dollaro al petrolio, facendo nascere, per l’appunto, i “petrodollari”. In tal modo, negli ultimi cinquant’anni, anche senza l’ancoraggio all’oro, gli Usa hanno potuto così mantenere inalterata la propria supremazia anche sul campo finanziario e valutario: sono passati, quasi senza soluzione di continuità, dal gold-exchange standard a quello che potremmo denominare, per analogia, oil-exchange standard. Il dollaro Usa, oltre a rappresentare circa il 59% delle riserve valutarie mondiali (sui livelli più bassi degli ultimi 25 anni ma comunque ancora predominante), mantiene tuttora un assoluto dominio sui flussi commerciali e sui movimenti di capitale mondiali, sfiorando il 90% del totale. Ciò ha consentito alla Fed, negli ultimi cinquant’anni, di proseguire ad emettere dollari “in eccesso”, monetizzando così in parte il debito del Paese a scapito dei partner commerciali, costretti a procurarsi dollari per le proprie importazioni, in particolare di greggio e materie prime, e a mantenere allo stesso tempo forti riserve valutarie in dollari e investimenti finanziari sul mercato statunitense. L’evoluzione degli ultimi quindici anni, con l’espansione iperbolica del Bilancio della Fed a partire dalla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2008 e, ancor più, post-CoViD, comporta sicuramente un rischio crescente per la stabilità finanziaria a livello mondiale, di cui le recenti fiammate inflazionistiche – aggravate dalla gestione politica fallimentare della crisi sanitaria, prima, e dal conflitto in Ucraina, poi – sono una delle attese e inevitabili conseguenze.

Si inserisce in questo quadro la strategia cinese di aumentare progressivamente la rilevanza valutaria della propria divisa ancorandola al petrolio, imitando proprio quanto fecero gli Usa nel lontano 1974. Già nel giugno del 2017 la Cina si era accordata con la Russia per potere pagare in yuan le importazioni di gas russo, e in seguito tali accordi vennero estesi anche all’Iran, all’Angola e al Venezuela. Nel marzo del 2018, la Cina introdusse sullo Shanghai International Energy Exchange i contratti future sul petrolio denominati in yuan, garantendo la copertura in oro degli yuan, per superare le reticenze degli investitori. L’iniziativa ha riscosso un buon successo ma non esiste ancora un consenso sufficientemente esteso nell’accettazione dello yuan come mezzo di pagamento: il renminbi, infatti, è considerato ancora troppo volatile, illiquido e rischioso.

Il futuro del petroyuan dipenderà quindi dall’incremento dei volumi delle transazioni: si inserisce in tale prospettiva il tentativo cinese di convincere l’Arabia Saudita a negoziare in yuan una quota crescente dell’export di petrolio, visto che la Cina acquista più del 25% del petrolio esportato dal Paese arabo. L’impressione è che Riyad – le cui relazioni diplomatiche con Washington erano molto buone con l’amministrazione Trump ma che si sono fortemente deteriorate con il Presidente Biden –  voglia smarcarsi dall’orbita finanziaria statunitense, sia per evitare il rischio di incorrere in future sanzioni come sta succedendo alla Russia, sia per entrare nel triangolo Russia-Cina-India nella prospettiva di uno spostamento del baricentro commerciale verso l’Asia, conseguenza del conflitto in Ucraina e del clima di nuova guerra fredda tra la Nato e la Federazione Russa. Le importazioni di greggio saudita da parte degli Usa sono in forte calo: dai 2 milioni di barili di greggio all'inizio degli anni '90, secondo l’EIA (Energy Information Administration) l'import è sceso a meno di 500.000 barili al giorno; quelle cinesi, invece, sono in costante crescita: in base ai dati dell'Amministrazione generale delle dogane cinese, nel 2021 l'Arabia Saudita è stato il principale fornitore di greggio della Cina, con 1,76 milioni di barili al giorno, seguita dalla Russia con 1,6 milioni di barili al giorno. È chiaro che l’influenza statunitense sulla casa regnante wahabita perde di forza, a tutto vantaggio della Cina. Un accordo della Cina con Riyad creerebbe poi probabilmente un effetto domino, spingendo anche altri Paesi produttori di petrolio a stringere accordi col colosso asiatico, facendo crescere enormemente i volumi transati sul petroyuan e aprendo così una breccia pericolosa nella diga che gli Usa hanno creato a protezione del proprio sistema valutario e finanziario. Le implicazioni non riguardano quindi solamente la sicurezza degli approvvigionamenti energetici ma anche questioni economico-finanziarie e geopolitiche. Come ha scritto l’economista Gal Luft, dell’Institute for the Analysis of Global Security, «il mercato del petrolio, e per estensione tutto il mercato globale delle materie prime, rappresenta la polizza assicurativa dello status del dollaro come valuta di riserva. Se questo mattone viene rimosso, il muro inizia a crollare».

Tali decisioni si accompagnano all’accelerazione del progetto di transizione verso lo yuan digitale: come risaputo, l’ultima frontiera dei sistemi monetari contemporanei sarà la smaterializzazione completa del denaro, con la progressiva sostituzione del contante con sistemi di pagamento elettronici e l’introduzione negli anni a venire delle cosiddette CBDC, le Central Bank Digital Currencies, cioè le “Divise Digitali delle Banche Centrali”, di cui la Cina è all’avanguardia a livello mondiale. L’abbinata tra petroyuan ed e-yuan rischia quindi di essere un’arma molto potente in mano alle autorità cinesi per intaccare la supremazia valutaria statunitense, nella prospettiva di una progressiva de-dollarizzazione dell’economia e della finanza mondiale.

A scanso di equivoci, occorre puntualizzare che non sono verosimili cambiamenti significativi nel giro di pochi anni, vista l’enorme distanza sul piano valutario e finanziario tra Usa e Cina e la grande inerzia che impedisce di modificare tali flussi in modo consistente e veloce: basti pensare, ad esempio, che circa l’80% delle transazioni petrolifere mondiali è ancora denominata in dollari statunitensi. La strategia valutaria cinese, tuttavia, è un chiaro e intelligente tentativo di cambiare gli equilibri finanziari mondiali e, attraverso di essi, anche quelli economici e geopolitici.

Sganciandosi dal dominio del dollaro, i Paesi non allineati con gli Usa avrebbero poi il vantaggio di potere aggirare eventuali sanzioni imposte dalla Casa Bianca o dall’Unione Europea. A tal proposito, il conflitto in Ucraina e la conseguente escalation sanzionatoria contro la Russia potrebbero avere come effetto indesiderato proprio l’accelerazione di tali tendenze alla “de-dollarizzazione”: dopo gli smacchi recentemente subìti in Afghanistan dall’amministrazione Biden, il lento tramonto del “petrodollaro” potrebbe portare in futuro a una nuova Bretton Woods, con la perdita per gli Usa del proprio status dominante sul fronte valutario. Ciò segnerebbe un netto ridimensionamento della “globalizzazione politica”, nata dalle ceneri dell’URSS nel 1991 e centrata sul ruolo egemone statunitense. In un mondo sempre più multipolare, dove il dominio degli Stati Uniti risente della minaccia crescente delle nuove potenze emergenti, la finanza e le valute diventeranno armi non convenzionali di primaria importanza nelle moderne “guerre asimmetriche”. Occorre tenerne conto.