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Per mons. Perego non c'è il giudizio, ma il condono universale

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Inferno, Paradiso e Purgatorio sono medievalismi da archiviare per l'arcivescovo di Ferrara: nessuno si danna, al massimo recupera. Ma la Chiesa, oggi come ieri, parla chiaramente di premio e pena eterni.

Ecclesia 20_11_2024
STEFANO CAROFEI IMAGOECONOMICA

Inferno, Purgatorio e Paradiso come distanze da Dio, che però possono essere recuperate: un po' come le penalità all'inizio del campionato di calcio, da recuperare partita dopo partita. È questa l'idea bislacca che l'arcivescovo della diocesi di Ferrara-Comacchio, mons. Gian Carlo Perego, ha consegnato ai partecipanti della Scuola di teologia per Laici, nell'incontro del 22 ottobre scorso.

Durante la sua relazione sul tema “Giubileo 2025, guardare il mondo con gioia e speranza”, Perego ha tirato in ballo la trita e ritrita “speranza” di un Inferno vuoto del teologo Hans Urs von Balthasar; richiamo che ha stuzzicato la curiosità di un presente che, nel momento delle domande, ha mostrato all'arcivescovo la sua perplessità di pensare che Dio salvi anche chi rifiuta fino all'ultimo la sua misericordia. Ma quando si trova ancora qualche fedele dalle idee sane, ci pensano subito i pastori malsani a porre rimedio al fenomeno inquietante della persistenza della fede nei semplici...

E così l'arcivescovo di Ferrara ha pensato di andare ben oltre l'ipotesi balthasariana (della cui problematicità abbiamo parlato qui), per negare l'eternità delle pene di quanti muoiono senza pentimento: «Io non posso immaginarmi che un mio fratello possa essere in una condizione infernale, per usare un'immagine. Posso al massimo pensare che Inferno, Purgatorio e Paradiso, così come li abbiamo pensati nella storia, siano la distanza che ognuno di noi ha di fronte a Dio nel momento della sua morte, la distanza personale, che però viene recuperata, come nel figliol prodigo, dalla misericordia di Dio». Che, tradotto, significa che l'Inferno non è una condizione definitiva (il figlio prodigo, come tutti sanno, non era all'Inferno).

Secondo Perego, non si tratterebbe solamente della propria personale – ed eretica – convinzione, ma sarebbe invece la posizione della «Chiesa nei suoi documenti», nel «Catechismo della Chiesa cattolica», nei quali «ecco, si utilizzano ancora queste tre immagini, ma non sono immagini di luoghi in cui... sono immagini per dire che, guarda che alla fine la tua condizione sarà di distanza, l'Inferno, se uno non vede Dio deve farne di strada ancora; se alla fine della sua vita non vede Dio, non ci può essere il nulla; anche per lui ci dev'essere un incontro e questo incontro non potrà essere nella stregua di giudizio secondo i canoni penali umani, ma secondo i canoni della misericordia di Dio». L'Inferno come una strada da percorrere dopo la morte per giungere a Dio...

L'arcivescovo è convinto che questa impostazione sia necessaria per pensare oggi l'escatologia, perché oggi sarebbe persino «vergognoso» spiegarla come Dante, «figlio di una teologia del tempo, medievale, tomista». Impostazione che però continua a persistere anche nei cristiani; ma – ribadisce – «non possiamo pensarle in questa maniera oggi. Ma anche prima era così».

Con un oggi assurto a fonte principale della Rivelazione, Perego ha ritenuto non necessario mostrare agli uditori le prove del fatto che la Chiesa abbia sempre pensato come lui dice. Ma le cose, con buona pace di tutti, stanno appena appena diversamente. Come, per esempio, quando papa Vigilio confermava gli anatemi dell'imperatore Giustiniano contro Origene (Sinodo di Costantinopoli del 543) diversi secoli prima della terribile diade Dante-Tommaso: «Se qualcuno dice o ritiene che il castigo dei demoni e degli uomini empi è temporaneo e che esso avrà fine dopo un certo tempo, cioè ci sarà un ristabilimento (apocatastasi) dei demoni o degli uomini empi, sia anatema» (Denz. 411). Che questo anatema non finisca anche in quel di Ferrara?

Dell'eternità e definitività della pena di quanti muoiono impenitenti parlano anche i primi simboli della fede cristiana, come il Fides Damasi («eterno supplizio per i peccati»), o l'atanasiano («fuoco eterno»), la formula di sottomissione del presbitero Lucido (Sinodi di Arles e Lione, «fuochi eterni e fiamme infernali»), la professione di fede detta Fides Pelagii («pene del fuoco eterno e inestinguibile»), il simbolo del Sinodo di Toledo del 693 («dannazione perpetua»), la Definizione contro gli albigesi e i catari del quarto Concilio Lateranense («pena eterna con il diavolo»): tutti rigorosamente anteriori a Dante e Tommaso. Dunque, a quale «prima» fa riferimento l'arcivescovo per suffragare le sue eresie?

E se diamo un'occhiata al “dopo”, possiamo vedere che l'insegnamento della Chiesa afferma esattamente il contrario delle fabulazioni di Mons. Perego. Nella lettera Recentiores episcoporum (17 maggio 1979), la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva risposto proprio ad alcune questioni relative all'escatologia cattolica, tra cui l'insegnamento sul Purgatorio e l'Inferno, affermando che la Chiesa «crede che una pena attende per sempre il peccatore, il quale sarà privato della visione di Dio […]. Essa crede, infine, per quanto concerne gli eletti, ad una loro eventuale purificazione [...] del tutto diversa dalla pena dei dannati. È quanto la Chiesa intende quando parla di inferno e di purgatorio». Niente “distanze” da recuperare dopo la morte: la Chiesa dunque insegna una pena «per sempre» per chi muore senza pentimento. Insegnamento confermato dal Catechismo della Chiesa Cattolica, che Perego, non si capisce con quale criterio, ritiene invece di supporto all'idea di un Inferno come “distanza recuperabile”: «Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l'amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione della comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (§ 1033, corsivi nostri). E poco oltre si ribadisce che «la Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità» (§ 1035).

Che l'arcivescovo avrebbe deragliato nell'eresia lo si capiva fin dall'inizio, allorché affermava che «la giustizia di Dio è misericordia». La giustizia è giustizia e la misericordia, misericordia, senza confusione o assorbimento, in una reciproca relazione per cui è giusto che si salvi chi ha accolto la misericordia di Dio ed è giusto che si danni chi l'ha rifiutata. Così come in Paradiso non si farà altro che magnificare quella misericordia, che anche i dannati dovranno riconoscere esser stata loro offerta fino all'ultimo. Anziché sproloquiare di inferni vuoti e distanze recuperabili, sarebbe meglio “limitarsi” a stare nella scia tracciata dal Signore stesso: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno» (Lc 13, 13).



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