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monito evangelico

Inferno vuoto? A negarlo è Gesù

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Nelle parole pronunciate in tv dal Papa c’è il dramma di una Chiesa che in nome di una malintesa misericordia si prodiga a “scusare” più che a evangelizzare. Ma la "porta è stretta", ammonisce il Signore.

Ecclesia 18_01_2024 English Español
Wikimedia commons - foto: Sailko

«A me piace pensare l’inferno vuoto, spero sia realtà»; così papa Francesco intervenendo in collegamento, domenica sera, alla trasmissione Che Tempo Che Fa. «Quello che dirò non è un dogma di fede ma una cosa mia personale», ha affermato il Papa.

Non ha dichiarato che l’inferno non esiste, non ha detto che è vuoto, non ha sostenuto l’apocatastasi; eppure in quelle parole, apparentemente lecite, c’è tutto il dramma che la Chiesa sta vivendo da oltre mezzo secolo. In un’altra intervista di duemila anni fa, più genuina e meno mediatica, mentre Nostro Signore stava andando verso Gerusalemme, «un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”» (Lc 13, 23). La risposta a questa domanda mette in evidenza tutta la distanza, non di tempo né di spazio, ma di senso, tra Gesù Cristo e il suo vicario: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno».
Il Signore, che è la misericordia fatta carne, non cerca di spegnere l’inquietudine della salvezza dal cuore dell’uomo, ma sembra addirittura confermarla: molti non entreranno. Per questo, voi che mi ascoltate, voi che mi interrogate, sforzatevi di entrare.

Il seguito del passo del Vangelo di Luca, che è considerato il Vangelo della misericordia per la presenza delle tre parabole della pecora smarrita, della dracma perduta e del figlio prodigo, è ancora più forte: «Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori» (Lc 13, 25-28). Non si tratta affatto di un passo isolato. Nel Vangelo di San Matteo ritroviamo un monito dello stesso tenore: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7, 13-14). Ancora una volta, il contrasto è netto: molti si perdono, pochi trovano la strada della vita.

Ecco perché San Paolo, l’Apostolo che si è logorato per annunciare che la salvezza di Dio è a disposizione non solo dei Giudei, ma anche dei pagani, proprio lui, in una lettera che si contraddistingue per l’affetto e la consolazione, esorta i cristiani di Filippi così: «attendete alla vostra salvezza con timore e tremore» (Fil 2, 12). Con timore e tremore: perché? Perché, fedele all’insegnamento del Signore, egli sapeva molto bene che una vasta categoria di peccati chiude le porte per l’ingresso nel Regno: «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio» (1Cor 6, 9-12). Nessuna illusione a riguardo, giustificata da una malintesa misericordia di Dio, nessuna falsa tranquillità basata sul fatto che i condizionamenti di ogni sorta renderebbero quasi impossibile peccare.

Sant’Agostino, nel libro XXI del suo capolavoro De Civitate Dei, già si trovava costretto a rintuzzare i falsi insegnamenti dei «misericordiosi origenisti», che intendevano le parole evangeliche a modo loro, ipotizzando una salvezza universale. Costoro, «difendendo la propria causa, tentano quasi di andare in senso contrario alle parole di Dio con una misericordia, per così dire, superiore alla sua» (XXI, 24. 1). Misericordia maiore conantur. Il Novecento è stato il secolo durante in quale questi “conati” sono diventati pensiero teologico dominante. Addirittura nel 1948, un Louis Bouyer poco più che trentenne, già doveva constatare il crollo della dimensione escatologica nella vita cristiana, ed in particolare lo svuotamento della realtà dell’inferno e il pericolo concreto della dannazione eterna: «manteniamo un inferno per metterci in regola con dei testi fin troppo chiari; ma, in privato, rassicuriamo le persone che nessuno rischia di andarci».

Ora, nemmeno più in privato. C’è differenza tra la speranza che molte persone si salvino e quella che l’inferno sia vuoto, quella differenza abissale che passa tra il lavoro generoso e indefesso per la nostra e l’altrui conversione e la continua predicazione delle “scusanti” per il peccato. La missione, la predicazione sulla vita eterna, la vita ascetica, la lotta senza sconti contro il male, in tutte le sue forme, il richiamo continuo al pentimento e alla penitenza, l’indicazione delle esigenze dei comandamenti di Dio sono le conseguenze della prima; l’affermazione continua dei condizionamenti psicologici, sociali, culturali, la morale dei singoli casi e delle circostanze, la ricerca di soluzioni perché tutti possano ricevere sacramenti e benedizioni, senza alcun appello alla conversione, sono le manifestazioni della seconda.

Un lettore, sempre molto attento e acuto, ha sbloccato in chi scrive il ricordo di un passaggio della Leggenda del Grande Inquisitore, del romanzo I fratelli Karamazov. Il dialogo tra il Grande Inquisitore e Gesù Cristo, tornato nel mondo e subito arrestato, dopo aver compiuto il miracolo della risurrezione di una bambina, pone al centro la pretesa di edificare un ordine migliore di come l’abbia fatto il Figlio di Dio. E in questo mondo migliore, non poteva mancare quella misericordia maior di cui parlava Sant’Agostino, una misericordia capace di una presunta salvezza più universale di quella voluta da Cristo: «Noi consentiremo loro di peccare, essi sono deboli, privi di forza e così ci ameranno come bambini, diremo loro che ogni peccato verrà riscattato se commesso col nostro permesso, che permettiamo loro di peccare in quanto li amiamo e che prenderemo su di noi il castigo ed essi ci ameranno come benefattori (…). Si profetizza che Tu tornerai con i Tuoi eletti, con la Tua gente forte e altera, ma noi diremo che essi salvarono unicamente se stessi, mentre noi li salvammo tutti... e diremo: “Giudicaci se puoi e osi”. Anch’io mi proponevo di far parte del numero dei Tuoi eletti, dei forti, ma sono tornato in me e mi sono unito a coloro che hanno corretto l'opera Tua. Ho lasciato gli orgogliosi e sono tornato agli umili, perché gli umili fossero felici». Così il Grande Inquisitore.

Se il Redentore degli uomini annuncia che molti finiranno là dove è pianto e stridore di denti, perché dichiarare il proprio personale piacere nel pensare che l’inferno sia vuoto?  Se l’Apocalisse annuncia che quanti non sono stati scritti nel libro della vita vengono gettati nello stagno di fuoco (cf. Ap 20, 15), perché “sperare” che questo stagno sia disabitato?  La speranza teologale si basa sulla fede e la fede si fonda sulle parole del Signore, sulla Rivelazione di Dio. Dunque, la speranza che non delude (cf. Rm 5, 5) poggia sull’annuncio evangelico della salvezza che, in Cristo, è offerta a tutti, che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2, 4) e perciò ci ha dato ogni grazia in Cristo; ma anche sul fatto che «molti, ve l'ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine» (Fil 3, 18-19).



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