Pena di morte, in principio è legittima
I giudizi espressi mercoledì dal Papa sulla negazione assoluta della legittimità della pena di morte si scontrano con ciò che la Chiesa ha sempre insegnato. E non per errore.
Torniamo al discorso del Pontefice di mercoledì scorso tenuto ai partecipanti all'incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e citiamo di esso la parte concernente la pena di morte:
«Questa problematica non può essere ridotta a un mero ricordo di insegnamento storico senza far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana. Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. E’ in sé stessa contraria al Vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana che è sempre sacra agli occhi del Creatore e di cui Dio solo in ultima analisi è vero giudice e garante. Mai nessun uomo, "neppure l’omicida perde la sua dignità personale" (Lettera al Presidente della Commissione Internazionale contro la pena di morte, 20 marzo 2015) […] A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità. […] Purtroppo, anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia. Assumiamo le responsabilità del passato, e riconosciamo che quei mezzi erano dettati da una mentalità più legalistica che cristiana. La preoccupazione di conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella comprensione del Vangelo. Tuttavia, rimanere oggi neutrali dinanzi alle nuove esigenze per la riaffermazione della dignità personale, ci renderebbe più colpevoli. Qui non siamo in presenza di contraddizione alcuna con l’insegnamento del passato, perché la difesa della dignità della vita umana dal primo istante del concepimento fino alla morte naturale ha sempre trovato nell’insegnamento della Chiesa la sua voce coerente e autorevole. […] E’ necessario ribadire pertanto che, per quanto grave possa essere stato il reato commesso, la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona».
In sintesi il Papa ci sta dicendo che gli ultimi pontefici avevano già iniziato ad insegnare una dottrina diversa sulla pena di morte rispetto a quella tradizionale, che la pena capitale lede il bene indisponibile della vita, che non permette un riscatto morale, che è contraria alla dignità personale, allo spirito del Vangelo e dunque alla fede cattolica.
Nessuno di questi giudizi pare condivisibile. In prima battuta per valutare la bontà di un’azione occorre far riferimento al suo oggetto morale cioè al fine prossimo perseguito: l’oggetto morale dell’irrogazione della pena di morte è buono perché è “difendere la collettività”: l’azione materiale “uccisione” dal punto di vista morale deve essere intesa come difesa del bene comune, non come “omicidio” o “vendetta”. Solo l’uccisione diretta e volontaria dell’innocente è sempre un male: questo è ciò che insegna il Magistero. La pena capitale trova dunque la sua liceità morale nel fatto che noi tutti abbiamo il dovere morale di difendere noi stessi prima che la vita degli aggressori: «l’uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui» (Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7 c.).
Come un soggetto privato può lecitamente uccidere l’aggressore al fine di difendersi se non vi sono altre soluzioni che permettono di tutelare la propria o altrui vita, così l’ordinamento giuridico – nella previsione di quasi certe reiterazioni del reato o di reati di uguale gravità - può ricorrere alla pena capitale se è l’unico modo per difendere l’incolumità dei cittadini. Così Tommaso D’Aquino: «Ecco perché, nel caso che lo esiga la salute di tutto il corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e cancrenoso. Ebbene, ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto. E quindi se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune; infatti, come dice S. Paolo: ‘Un po' di fermento può corrompere tutta la massa’» (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 2 c.). E’ proprio il dovere di tutelare la preziosità intrinseca delle persone di una collettività, cioè la loro dignità – argomento usato da Francesco per censurare la pena di morte – che giustifica quest’ultima.
La pena di morte è poi giustificata da un altro motivo che si aggiunge al precedente. Ogni persona è titolare di diritti fondamentali, tra cui la vita. La titolarità di questi diritti però può essere persa a motivo delle nostre azioni: vedi la libertà personale a seguito di un crimine. E’ come se dentro di noi ci fosse una parete in cui sono infissi i diritti fondamentali. Azioni assai malvagie che scegliamo di compiere hanno il potere di abbattere questa parete e quindi di far cadere a terra i diritti in essa infissi. Chi uccide si spoglia da sé del proprio diritto alla vita e lo Stato va a rettificare questa situazione morale. Così Pio XII: «Anche quando si tratta dell’esecuzione capitale di un condannato a morte lo Stato non dispone del diritto dell’individuo alla vita. È riservato allora al pubblico potere di privare il condannato del bene della vita, in espiazione del suo fallo, dopo che col suo crimine, egli si è già spogliato del suo diritto alla vita» (Discorso al I Congresso di Istopatologia del Sistema Nervoso, 13/09/1952, n. 28). A motivo delle nostre azioni degradiamo la nostra dignità morale, non quella naturale che è inscalfibile (l’omicida rimane persona). E’ un po’ come degradarsi a rango di bestie e le bestie non hanno diritti. Così di nuovo l’Aquinate: «Col peccato l'uomo abbandona l'ordine della ragione: egli perciò decade dalla dignità umana […] degenerando in qualche modo nell'asservimento delle bestie […] Perciò sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una bestia» (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 2, ad 3).
Questo è un primo motivo per affermare che, contrariamente a quanto dichiarato dal Papa, la pena di morte non è contraria alla dignità morale della persona (d’altronde anche la carcerazione sopprime un bene indisponibile come quello della libertà e quindi potrebbe essere intesa, a torto, come lesiva della dignità del recluso).
Perché la pena di morte esprima realmente l’oggetto morale “difesa” occorre però che sia proporzionata a questo fine. Cosa significa? Primo: che esista una reale pericolosità sociale intesa come certezza o alta probabilità che il reo commetterà nuovamente crimini contro la vita o beni simili. La mera possibilità di future aggressioni non giustifica il fine difensivo, non giustifica la pena di morte perché il reo è ormai innocuo (il presente punto si lega al percorso rieducativo del reo che vedremo dopo). Secondo: extrema ratio. Se c’è un altro modo per contenere l’aggressività del reo occorre perseguire quella soluzione. In caso contrario la pena di morte non esprimerebbe più il fine “difendere la comunità”, bensì sarebbe espressione di “omicidio di Stato” oppure di “vendetta”: dalla difesa passeremmo all’offesa. Inoltre sanzioni differenti quali la carcerazione permetterebbero al reo di aver più tempo per emendarsi.
Così il Catechismo della Chiesa cattolica: “L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude […] il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo ‘sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti» (Evangelium vitae, n. 56)” (n. 2267).
E’ per questo motivo che i pontefici recenti hanno chiesto la cancellazione della pena di morte a livello mondiale, non perchè il principio della difesa del bene comune attualizzato in simile sanzione non sia più valido, ma perché constatavano che attualmente nei paesi di tutto il mondo ci sono altri strumenti – esempio la detenzione – più proporzionati al fine difensivo.
La pena di morte poi ingenera effetti positivi che sono quelli propri di ogni altra sanzione. La funzione retributiva: «La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa» (CCC n. 2266). In altri termini la sofferenza del reo va a restaurare il volto della giustizia che lui stesso ha deturpato. E’ un risarcimento che, secondo giustizia equitativa, deve ripagare con il medesimo valore del danno inferto: vita tolta per vita data. Da ciò discende il criterio di proporzionalità: ad un piccolo danno morale corrisponde una lieve pena; ad un grande danno morale una pena di uguale entità (che può riguardare anche la libertà personale, ma non esclude il bene “vita”). La giustizia è dare a ciascuno il suo: la collettività ha diritto alla sofferenza del reo.
Funzione di deterrenza: non si può escludere che la previsione nel codice di tale pena e la sua reale applicazione non esprimano un’efficacia dissuasiva nei confronti dei consociati. Funzione pedagogica-rieducativa: la pena fa riacquistare al reo quella quota di umanità che ha perso. Si obietterà: ma se costui morirà questo argomento non ha più senso. Per far compiere al reo un percorso rieducativo è bene che tra la sentenza di condanna e l’esecuzione passi un certo lasso di tempo che permetta al reo di emendarsi: in tal modo si soddisfa l’esigenza di riscatto morale chiesta dal Papa. Se ciò avviene, la sentenza capitale non avrebbe più ragion d’essere perché l’emenda è avvenuta e dunque la pena, in merito a questo aspetto, ha avuto efficacia. Inoltre come detto sopra la pericolosità sociale verrebbe meno e dunque parimenti verrebbe meno il fine della pena capitale (difesa della collettività). Anche se quest’ultima fosse immediatamente successiva alla sentenza nulla esclude comunque la resipiscenza e il ravvedimento del reo. Questo è un altro motivo per affermare che la pena capitale può contribuire alla ricostruzione della dignità del reo e che esprime in altro senso la virtù della giustizia: la pena è dovuta al reo perché occasione preziosa per lui di ri-umanizzarsi. Se l’emenda non avviene la pena deve essere comunque irrogata: non esplicherà la funzione rieducativa non per difetto della natura della pena, ma per mancanza di volontà del reo, però conserverà comunque la funzione retributiva e dissuasiva e ovviamente la finalità difensiva stante le condizioni prima menzionate.
Passando dal piano della filosofia morale a quello della teologia morale, ricordiamo l’episodio del buon ladrone condannato a morte. Egli ad un certo punto ammette che la sua pena è giusta: in quel momento non avrebbe più ragion d’essere la sua esecuzione perché ha riacquistato la dignità morale perduta e non è più soggetto pericoloso, ma Gesù permette questa ingiustizia per un bene più grande: la morte in croce servirà sul piano spirituale come pena utile per espiare i peccati commessi e quindi per acquistare meriti per entrare in Paradiso. Perciò la pena di morte non è contraria allo spirito del Vangelo, anche perché essendo valida sul piano morale come potrebbe essere in contraddizione con la fede cattolica?
Come abbiamo visto la bontà morale della pena di morte si incardina nel principio di difesa della collettività. Negare quindi validità morale alla pena di morte porta alla negazione anche dell’istituto della legittima difesa personale – che ne costituisce il previo fondamento – e della guerra difensiva (tra l’altro l’applicazione della pena di morte trova efficace espressione soprattutto nei contesti di guerra difensiva in specie civile dove la messa a morte dell’ingiusto aggressore, capo della coalizione avversaria, spesso pone fine al conflitto e quindi è espressione di giusta difesa della nazione). La risultante sarebbe meno tutela per la vita, più garanzie per gli attentati a questa.