Pena di morte in calo? Ecco cosa accade in Cina
Amnesty International parla di diminuzione delle sentenze capitali nel pianeta, ma in alcuni dei Paesi dove ancora sono previste il numero assoluto delle esecuzioni è cresciuto: in Arabia Saudita sono state 184 nel 2019, contro le 149 del 2018; in Iraq sono raddoppiate; soprattutto in Cina ne avvengono a migliaia: il che rende incerta la reale diminuzione assoluta del fenomeno.
Puntuale (verrebbe da dire come la morte) arriva anche quest’anno il rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo, pubblicato il 21 aprile. Le notizie contenute sono tre.
La prima è da un lato la diminuzione in termini assoluti del numero delle sentenze capitali eseguite nel pianeta, dall’altro l’aumento dei Paesi dove di fatto o di diritto la pena di morte è stata abolita o sospesa sine die. Nel corso del 2019 il numero complessivo delle esecuzioni capitali ha infatti toccato il record al ribasso dell’ultimo decennio, calando del 5% rispetto al 2018, ovvero passando a 657 uccisioni dalle 690 del 2018. Il calo nel numero complessivo è peraltro costante per il quarto anno consecutivo. A trainare è l’Asia. In generale è diminuito il numero dei Paesi che nel 2019 hanno applicato le sentenze capitali (sono stati 7), ma in particolare il merito va al Giappone e a Singapore, che hanno sensibilmente ridotto i propri numeri (il Giappone ha registrato 3 casi nel 2019 invece dei 15 del 2018 e Singapore 4 invece che 16), e soprattutto a Taiwan e Thailandia, che hanno azzerato il numero delle sentenze eseguite rispetto all’anno precedente, nonché all’Afghanistan, che ha fatto lo stesso per la prima volta dal 2010.
In più, Kazakistan, Russia, Tagikistan, Malesia e Gambia la pena di morte l’hanno di fatto sospesa. Quanto agli Stati Uniti d’America, le esecuzioni sono scese da 25 a 22, la California ha istituito una moratoria ufficiale e il New Hampshire le ha abolite completamente. Nel complesso, a tutt’oggi sono 106 i Paesi che hanno giuridicamente abolito la pena di morte e 142 quelli che l'hanno abolita di fatto.
La seconda notizia è che in alcuni dei 20 Paesi dove ancora la pena di morte è prevista e praticata il numero assoluto delle sentenze eseguite nel 2019 è aumentato, alcuni Paesi che avevano smesso l’applicazione della pena di morte hanno invece ripreso a praticarla e altri annunciano di volerlo fare in futuro. In Arabia Saudita le sentenze eseguite sono state 184 contro le 149 del 2018; in Iraq sono raddoppiate, passando ad almeno 100 contro le 52 dell’anno precedente; in Sud Sudan sono state almeno 11, ovvero la cifra più alta dal 2011, anno dell’indipendenza; in Yemen 7 invece delle 4 del 2018; in Bahrain 3 rispetto a un 2018 privo di esecuzioni; e in Bangladesh 2 dopo, anche lì, un anno di sospensione totale. In Iran scendono ufficialmente di due unità rispetto al 2018, ma restano, ufficialmente, tante, almeno 251. Inoltre, scrive il rapporto, «il parlamento delle Filippine ha presentato delle proposte di legge per la reintroduzione della pena capitale. Sri Lanka e le autorità federali degli Stati Uniti d’America hanno minacciato di riprendere le esecuzioni, ferme ormai da anni».
La terza e ultima notizia è che, mentre pure per Corea del Nord e Vietnam non si hanno dati certissimi, giacché l’accesso alle informazioni è limitato, «la Cina rimane il maggior esecutore al mondo». Amnesty International si esprime così nel comunicato di lancio del rapporto; nel testo non usa le medesime parole dirette, ma la sostanza che illustra è equipollente. Il rapporto parla infatti di «migliaia» di esecuzioni. Quante, non sia sa, giacché in Cina il numero delle sentenze capitali eseguite è un segreto di Stato. Ma è la Cina ha eseguire il numero in assoluto maggiore di sentenze capitali del mondo. Trattandosi di migliaia, il record della Cina fa impallidire il secondo Paese della classifica, ovvero il citato Iran con almeno 251 esecuzioni. Anche per l’Iran Amnesty International non ha avuto accesso completo ai dati e quindi legittimamente sospetta (la cosa è vera anche per altri Paesi) che il numero sia più alto di 251, ma mai nell’ordine delle migliaia come in Cina.
Questa terza notizia manda dunque all’aria la prima, con l’effetto di smorzare, se non altro in parte, l’entusiasmo con cui il record 2019 relativo alla pena di morte nel mondo (la sua diminuzione nello scorso decennio) è stato lanciato e raccolto dalla stampa intera. Cosa accada in Cina nessuno lo sa davvero e quindi nessuno può giurare sul fatto che nel 2019 i numeri di sentenze capitali eseguite nel mondo sia sul serio diminuito. Magari è aumentato. Magari di molto. La Cina, dice infatti da anni Amnesty International, è un buco nero, anzi, diciamo noi, rosso.
Ora, sia il conto in migliaia di sentenze eseguite sia il fatto che il numero sia un “tesoretto” gelosamente top secret sono una costante da diversi anni. Da anni cioè la Cina è il primo Paese del mondo nel numero delle sentenze capitali, da anni sopravanza qualunque altro Paese nel conteggio, da anni nessuno sa davvero quante siano i condannati giustiziati, da anni Amnesty International dice, ripete e scrive tutte queste cose. Da anni nessuno commenta.
Le cronache quotidiane illustrano bene questa realtà atroce, in cui la pena di morte è utilizzata come consuetudine politica, come strumento normale di repressione, come mezzo di terrore e di controllo ideologico, e come arma di ricatto su una popolazione vessata e martoriata. A farne le spese sono anzitutto le minoranze etniche (milioni di persone) e le religioni, ma in realtà chiunque non sia allineato al centimetro con le direttive dell’uomo-Stato-Partito Xi Jiping e del suo regime neo-post-comunista è un candidato certo per il braccio della morte. Delitti di Stato come l’espianto forzato di organi dai prigionieri di coscienza, che vengono quindi condannati a morte in vista di ciò o uccisi in conseguenza dell’espianto forzato stesso, sono forse l’aspetto oggi più macroscopico del problema, ma non sono l’unico esempio nella galleria degli orrori cinesi.
È un’aberrazione sempre e da sempre, ma al tempo del coronavirus, quando ancora molti continuano a incensare la Cina come benefattrice dell’umanità, questi dati, alla portata di tutti, ma sistematicamente da tutti ignorati, dovrebbe suscitare l’indignazione del mondo intero, dei governi e delle istituzioni internazionali.