Pd contro "TeleMeloni": la Rai si spartisce solo a sinistra
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In viale Mazzini protestano i piddini, ma il sit-in della Schlein è un flop e la protesta è un boomerang: accusano il governo di lottizzare la tv pubblica, proprio come hanno sempre fatto (e fanno) loro stessi.
Ieri sera, nel disinteresse pressoché generale, si è svolto il sit-in di protesta davanti alla sede della Rai di viale Mazzini, a Roma, organizzato dal Pd di Elly Schlein per difendere l’indipendenza del servizio pubblico e la libertà di stampa.
Tra le tante contraddizioni di un’iniziativa del genere ce ne sono alcune che risultano di immediata percezione. Nel pieno delirio del Festival di Sanremo non era proprio il momento giusto per protestare contro chi, da giorni, si è trasferito nella città ligure per godersi lo spettacolo dell’Ariston e quindi neppure si accorge se sotto il suo ufficio qualcuno protesta. È vero, la protesta è più che altro contro TeleMeloni, quindi contro l’esecutivo. Però le stanze vuote di viale Mazzini non sono la migliore cornice per dare visibilità a un’iniziativa del genere.
Inoltre, la protesta del Pd è in qualche modo contro se stesso, visto che ai vertici della tv pubblica e nelle redazioni più importanti continuano ad esserci decine e decine di dirigenti, funzionari, direttori, vicedirettori, capiredattori e redattori infilati lì negli anni dalla sinistra tramite segnalazioni provenienti direttamente dal Nazareno.
Protestare contro la lottizzazione sapendo di averla praticata fino all’avvento del governo Meloni e di praticarla almeno in parte ancora attualmente appare davvero una contraddizione. Peraltro, se proprio la si vuole dire tutta, anche i governi di sinistra, che avevano annunciato di voler riformare la Rai non hanno mai mosso un dito contro le logiche spartitorie, anzi le hanno cavalcate con cinismo e spietatezza esattamente come sta facendo oggi il centrodestra. È un sistema collaudato che funziona così da mezzo secolo.
Nel 1997, all’epoca del governo Prodi, l’allora ministro delle Telecomunicazioni, Antonio Maccanico, promosse una legge che cristallizzò le posizioni dominanti e non incise minimamente sui condizionamenti della politica sull’informazione radiotelevisiva. Sempre per evidenziare l’incoerenza di alcuni esponenti dem, si possono ricordare le dichiarazioni fatte dieci anni più tardi, nel 2007, dall’allora ministro delle Comunicazioni di un altro governo Prodi, Paolo Gentiloni, che aveva promesso di rilanciare il servizio pubblico in chiave pluralista. Tuttavia anche in quel caso i proclami della sinistra rimasero lettera morta.
Non ci si deve, dunque, scandalizzare se oggi che sono all’opposizione i post-comunisti si inalberano contro TeleMeloni, vale a dire contro quella che definiscono un’occupazione selvaggia della tv pubblica in chiave propagandistica. Gli uomini vicini all’attuale premier stanno facendo esattamente quello che, prima di lei, hanno fatto tutti gli altri, di destra e di sinistra. Perfino Il Fatto Quotidiano ieri ha sparato a zero contro il sit-in promosso da Schlein e dai suoi, evidenziandone la mancanza di credibilità, visto che uomini di punta del servizio pubblico continuano a fare riferimento al Pd e alle forze di sinistra.
L’iniziativa di protesta di ieri è davvero passata sotto silenzio, anche perché gli altri partiti che dovrebbero in teoria far parte del famoso campo largo della sinistra non vi hanno partecipato. Non solo i grillini si sono mostrati indifferenti, ma anche Azione di Calenda ha disertato e ha criticato la manifestazione, invitando il Pd a fare proposte, non proteste. Per Carlo Calenda «i sit-in si fanno a 14 anni, non siamo studenti del liceo Tassi, gli elettori ci pagano per fare proposte. Questo modo di fare politica non ha alcun senso».
La verità è che Elly Schlein sta cercando di incalzare la Meloni su tutti i fronti, quindi anche sul tema della libertà di stampa e dell’indipendenza della tv pubblica, visto che le elezioni europee si avvicinano e con esse, probabilmente, anche la resa dei conti nel suo partito. Ove il voto per Strasburgo non desse gli esiti sperati e il Pd restasse intorno al 20%, la sua sostituzione verrebbe messa all’ordine del giorno dai suoi detrattori interni, che non vedono l’ora di disarcionarla e di preparare la strada al ritorno in Italia di Paolo Gentiloni, prima come segretario poi come candidato premier del centrosinistra, Giuseppe Conte permettendo.
Il Pd non ha alcuna linea strategica sulla riforma della Rai. L’idea della Fondazione indipendente per gestire la tv pubblica non è mai stata realmente formulata e rimane un miraggio, mentre l’agguerrita spartizione di poltrone e l’anelito alla riconquista di viale Mazzini rimangono gli unici veri obiettivi dei vertici dem e delle altre opposizioni.
La Schlein, a onor del vero, può dire che non c’era quando il Pd occupava tutto l’occupabile in Rai, lasciando le briciole ai suoi avversari. Tuttavia, il partito è sempre quello e chi lo guida oggi non dovrebbe far finta di nulla e ignorare la gestione clientelare che i suoi predecessori hanno portato avanti nella tv pubblica.
La Rai non potrà mai essere riformata senza un azzeramento degli attuali meccanismi e senza l’applicazione di metodi di gestione neutrali che la mettano realmente al servizio del pubblico, cioè di tutti gli italiani.
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