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LA STORIA INSEGNA

Paolo pretese la riparazione degli affronti dell'Impero

Per affrontare l'emergenza Covid-19 si è adottata una prassi di governo che pone un serio problema di costituzionalità e di diritti fondamentali a cui la Chiesa ha sempre tenuto almeno quanto tiene alla salute. Eppure molti credenti troverebbero discutibile la determinazione con cui san Paolo, negli Atti degli Apostoli, pretese una riparazione pubblica di un'ingiustizia: perché i cristiani devono agire in difesa della libertà e dei diritti per il bene di tutta la società. 

Libertà religiosa 04_05_2020 English Español

Nella situazione oggettivamente molto grave in cui ci troviamo, sembra a molti che porre questioni di libertà, di responsabilità e di diritto sia oggi superfluo, per non dire inopportuno. Domina, infatti, in questo tempo di pandemia, un doppio regime della paura e le persone si sentono prese nella tenaglia di un contrasto irrisolvibile tra le esigenze contrapposte della sanità e dell'economia, minacciosamente brandite le une contro le altre dai rispettivi potentati. In questo scontro, che occupa quasi per intero lo spazio del discorso pubblico – senza peraltro che venga affrontato il tema arduo ma cruciale della ragionevole proporzionalità tra entità del rischio specifico e sacrifici imposti – ad un popolo frastornato dall'antitesi tragica tra “morire di virus” o “morire di fame” possono apparire decisamente meno rilevanti, se non addirittura pretestuose, le ragioni, ripeto, della libertà, della responsabilità e del diritto.

Così, per limitarci ad un solo esempio, il fatto che per affrontare l'emergenza provocata dal coronavirus in Italia si sia adottata senza colpo ferire una prassi di governo che pone un serio problema di costituzionalità, come molti autorevoli giuristi ormai riconoscono, e che di conseguenza si siano messi a repentaglio diritti fondamentali dei cittadini garantiti dalla Costituzione, viene in molti ambienti liquidato con noncuranza e con un certo fastidio, benché proprio da tale stravolgimento derivi l'esorbitante e farraginosa produzione normativa che negli ultimi due mesi ha inciso pesantemente, e talvolta in modo arbitrario e irragionevole, su tanti aspetti della nostra vita sociale.

Alle ragioni della libertà responsabile e del diritto, invece, la Chiesa tiene (o dovrebbe tenere) moltissimo. Almeno quanto tiene alla sicurezza e alla salute delle persone e alla prosperità del paese. Ci tiene non solo e non tanto quando ad essere minacciati sono i suoi diritti di libertà, ma sempre e per tutti gli uomini, perché nessuna posizione quanto quella cristiana si fonda sul rispetto, anzi sulla valorizzazione massima della libertà dell'uomo. Per questo, sin dai suoi inizi, il cristianesimo ha sempre avuto un rapporto di grande “attenzione critica” nei riguardi della dimensione giuridica: con ciò intendo un atteggiamento che unisce da un lato un profondo rispetto per il diritto – pienamente riconosciuto e apprezzato nel suo imprescindibile ruolo di unica costruzione umana in grado di impostare secondo ragione la convivenza tra gli esseri umani (ubi societas, ibi ius) – e dall'altro la coscienza che esso tuttavia non può mai costituirsi in un sistema chiuso ed autoreferenziale, sganciato dal nesso con la verità. I cristiani dei primi secoli, pur vivendo in una condizione molto difficile dal punto di vista legale, non hanno mai assunto un comportamento anti-giuridico, ma si sono impegnati, secondo l'indicazione sintetizzata nel motto paolino «Vagliate tutto e tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21), a fare un “retto uso” dell'ordinamento giuridico romano, avvalendosi dei beni che esso offriva loro, ma esercitando al tempo stesso una critica molto acuta nei riguardi delle sue pretese di assolutezza e mettendone in evidenza debolezze e contraddizioni. Sarebbe molto interessante considerare ad esempio, sotto questo profilo, l'opera di Tertulliano, ma qui basti ricordare che all'origine stessa della storia cristiana c'è la critica di un fatto giuridico: un processo, come quello di Gesù davanti a Pilato, in cui la logica processuale viene completamente ribaltata perché a mettere agli atti la verità è l'imputato e non il giudice.

Di questa attitudine cristiana alla krisis (cioè al discernimento) del diritto, che comporta fra le altre cose anche la rivendicazione franca e senza complessi dei propri diritti, ci fornisce un esempio che mi pare particolarmente interessante, alla luce della situazione che stiamo attualmente vivendo, il passo degli Atti degli Apostoli (16, 16-40) in cui si racconta dell'arresto di Paolo e Sila durante la loro permanenza a Filippi. Questa città della Macedonia può avere ai nostri occhi una certa valenza simbolica perché a quel tempo (siamo intorno al 50) era una colonia romana che godeva dello ius italicum, dunque un luogo in cui il diritto romano veniva applicato nella sua integralità; essa è anche la prima città “europea” in cui viene predicato il Vangelo. Potremmo quindi quasi dire che a Filippi il cristianesimo si confronta per la prima volta con il “nostro” mondo giuridico.

La storia è questa: avendo danneggiato con la loro predicazione gli interessi economici di qualcuno (cherchez l'argent, come sempre: cfr. 16, 16-19), i due missionari cristiani vengono «trascinati nella piazza principale davanti alle autorità» e accusati di «seminare il disordine» propagando «usanze che non è permesso di accogliere né di praticare a noi che siamo romani» (16, 19-21). I magistrati – in totale dispregio di uno dei principi fondamentali di quel diritto processuale romano di cui dovrebbero essere gli esecutori: audiatur et altera pars, cioè non si condanni nessuno senza aver prima ascoltato anche le sue ragioni! – non danno a Paolo e Sila la possibilità di discolparsi, ma, dopo averli fatti bastonare (con «molti colpi», precisa il testo), li mettono in prigione; in una sorta di 41 bis per giunta, poiché ci viene detto che il carceriere «li gettò nella parte più interna della prigione e assicurò i loro piedi al legno» (16, 24).

Poi accade l'imprevisto: quella stessa notte c'è «un terremoto violento, al punto da scuotere le fondamenta della prigione»; le porte si aprono e i prigionieri si trovano prodigiosamente liberi dai ceppi. È l'emergenza (in quel caso sismica, per noi ora virale), che di colpo rischia di far saltare il sistema e la sua “ordinaria amministrazione”. In una situazione del genere, non ci sono regole che tengano: il guardiano della prigione, convinto che i detenuti siano già tutti scappati, sta per uccidersi (sa bene, infatti, che in quanto responsabile della loro custodia avrebbe comunque pagato con la vita la loro fuga) ma Paolo lo salva gridandogli che sono invece tutti lì. Il testo non lo dice esplicitamente, ma si evince in modo chiaro che ad evitare il collasso del sistema con l'evasione in massa dei prigionieri qui non è la forza del potere, annientata dall'emergenza, ma l'autorità morale di quei due strani compagni di pena, così diversi dagli altri detenuti. Il carceriere, infatti, rendendosene conto, si getta ai piedi di Paolo e Sila e, chiamandoli «signori (kyrioi)», chiede loro che cosa deve fare «per essere salvato». Questa parte dell'episodio si conclude con l'evangelizzazione e il battesimo del carceriere e della sua famiglia e con la condivisione del pasto nella sua casa «piena di gioia per aver creduto in Dio» (16, 34). Si noti bene: siamo in presenza di un racconto di manifestazione della potenza divina come ce ne sono altri nel libro degli Atti, ma in questo caso tale intervento dall'alto non porta alla liberazione degli apostoli ingiustamente detenuti, bensì alla salvezza del carceriere e, indirettamente, dell'istituzione sociale a cui è addetto. L'emergenza ha dunque bruscamente invertito i ruoli: è il prigioniero a proteggere la vita di colui che, formalmente, lo avrebbe in suo potere.

Tale ribaltamento dei ruoli è ancor più evidente nel seguito del racconto, che contiene lo spunto a mio avviso più pertinente all'attuale problematica del rapporto tra la chiesa e il potere politico in Italia. Il mattino dopo, infatti, i magistrati della città mandano i littori a dire al guardiano del carcere di rimettere in libertà i due missionari cristiani. Probabilmente, con il terremoto di mezzo, pensano che non sia il caso di avere altre grane da risolvere e preferiscono chiudere lì la vicenda. A questo punto però la reazione di Paolo è sorprendente, e merita di essere riportata integralmente e attentamente meditata: «Ci hanno percosso in pubblico, senza processo, mentre noi siamo cittadini romani, ci hanno gettato in prigione, e ora ci espellono di nascosto? No davvero! Vengano loro stessi a farci uscire!» (16, 37). La rivelazione che Paolo è cittadino romano spaventa moltissimo i magistrati di Filippi, che si accorgono di aver violato un bel po' di leggi che tutelavano lo status dei titolari della cittadinanza romana (la Lex Valeria, tre Leges Porciae e da ultimo la Lex Iulia de vi publica et privata, emanata da Augusto nel 17 a.C.). Cambiando radicalmente il loro atteggiamento, si affrettano perciò a recarsi di persona dai due predicatori cristiani, per «pregarli» (così letteralmente dice il testo) di lasciare la città. Cosa che essi fanno, non prima però di aver riunito la comunità cristiana ed aver rivolto ai fratelli un ultimo discorso di esortazione.

Penso di non sbagliare se dico che oggi molti cristiani troverebbero se non proprio inappropriata quanto meno discutibile la determinazione con cui Paolo pretende una riparazione pubblica dell'ingiustizia subita, e la sentirebbero quasi come un puntiglio inutile e in fondo poco evangelico: quale migliore occasione di quella offerta all'apostolo per “stare dalla parte degli ultimi”, dei non garantiti, degli altri prigionieri, rinunciando a rivendicare un diritto particolare che gli spettava in quanto componente di un'élite? Non sarebbe stata una testimonianza più coerente con il messaggio di Cristo accettare in silenzio l'ingiusta umiliazione subita? Questo tipo di sensibilità, abbastanza diffusa ai nostri giorni, impedisce però di cogliere il vero senso della condotta di Paolo rappresentata in questo passo degli Atti degli Apostoli: non è in gioco la sua dignità personale, né si tratta di difendere un privilegio, ma piuttosto di denunciare la violazione del diritto da parte delle autorità preposte al governo della polis e all'amministrazione della giustizia. I cristiani – questo il messaggio che ci viene dal testo – non sono una minaccia all'ordine pubblico: anzi, con la loro vita conforme all'insegnamento di Cristo costituiscono un umile, silenzioso ma determinante fattore di stabilità sociale, il cui prezioso apporto si rivela in modo particolare nei momenti di crisi della società. Perseguitati, essi contribuiscono in modo decisivo a tenere in piedi la società che li perseguita. L'ordine pubblico, paradossalmente, può essere invece minato dai suoi tutori, quando esercitano male la propria delicata funzione, in particolare quando limitano ingiustamente la libertà dei cittadini. In questi casi i cristiani non devono avere timidezze o riserve mentali nel rivendicare il rispetto anche dei “propri” diritti, il che implica naturalmente richiamare gli altri all'adempimento dei corrispettivi doveri: non si tratta, infatti, di “porgere l'altra guancia”, ma di agire in difesa della libertà e dei diritti di tutti, per il bene della società intera. Valeva allora per le ingiuste percosse e l'ingiusta detenzione di Paolo e Sila, potrebbe valere oggi per certe indebite limitazioni della libertà religiosa o per l'intromissione dello Stato in materie di esclusiva spettanza della Chiesa.